martedì 22 settembre 2009

Ancora sulla diaspora arabo-cristiana

La realtà è sempre complessa; la tentazione è quella di semplificarla oltre il necessario, per ridurla entro gli angusti limiti dei nostri schemi mentali. Dovremmo ricordarci sempre di questa verità, se vogliamo rimanere in contatto con la realtà e non rinchiuderci nelle gabbie dell’ideologia. Per questo è utile ascoltare le opinioni di tutti, anche quando queste non collimano totalmente con le nostre, perché in tal modo abbiamo la possibilità di verificare se le nostre idee corrispondano davvero alla realtà o sono semplicemente frutto dei nostri pregiudizi.

Il mio post dell’altro giorno sulla sorte dei cristiani in Terra Santa ha raccolto discreti consensi; segno, questo, che si tratta di una preoccupazione ampiamente condivisa. Cosa che non può che far piacere. David però mi ha scritto invitandomi ad allargare lo sguardo, per rendermi conto che il problema è piú complesso di quanto non sembri; o, per lo meno, può avere diverse spiegazioni. Penso che sia utile per tutti considerare questo altro punto di vista, che può certamente arricchire la nostra riflessione.


«Permettimi due parole sulla “diaspora” degli arabi cattolici (melkiti, maroniti, bizantini, romani, ecc.) dalla Palestina e da Israele, ma anche da Libano, Iraq, Egitto, Siria e Iran... A ben vedere, è un fenomeno che non dipende solo dalle politiche di Israele, ma anche da fattori differenti. Prima di tutto, chi sono questi arabi cattolici? Sono spesso commercianti, professionisti, intellettuali e imprenditori, che emigrano prima di tutto verso le Americhe e non lo fanno da ora, ma da almeno settanta anni: basti guardare quanti vivono in Brasile, in Uruguay, negli Stati Uniti e soprattutto in Argentina, dove oggi sono milioni e esprimono la migliore classe dirigente di quei Paesi. Persino arabi musulmani sono emigrati con loro e sono diventati cattolici, come nel caso dell’ex-presidente Menem. Emigrano in cerca di condizioni di vita migliori, non solo di pace: lo fanno perché se lo possono permettere e perché intendono dare ai loro figli condizioni di vita all’altezza della loro istruzione e della loro cultura. Fanno lo stesso che fecero Irlandesi, Italiani e Bavaresi nell’Ottocento; Polacchi, Slovacchi e Croati anche ai nostri giorni... Cosí facendo portano con sé la loro fede, che non va perduta anzi — specie nelle Americhe — si diffonde e si approfondisce, apportando elementi di coraggio a comunità cattoliche spesso fiaccate e spaventate dopo decenni di governi ateo-massonici. [...]

Se la Chiesa vuole mantenere una “fiaccola” accesa in Terra Santa [...], allora stimoli giovani cattolici europei, asiatici e americani a stabilirsi in loco: i Filippini si troveranno certo meglio che nel Golfo e in Arabia Saudita, dove milioni di lavoratori sono spesso (ma non sempre) privati della libertà di praticare la loro fede. Scoprirà cosí che forse Israele è meno nemico di quanto possa sembrare... Lungi da noi l’idea di proteggere i cattolici di lingua araba come una specie in via di estinzione, forzata a restare in loco solo perché meno istruiti e meno fortunati di altri loro connazionali da tempo stabilitisi in Brasile o in Australia.

Soprattutto, se vogliamo che restino, offriamo loro ragioni per farlo: non vedo perché la Chiesa non stimoli imprenditori cattolici (ce ne sono eccome!) a investire in loco per dare ragioni serie di restare a quanti vogliono farlo. Non possiamo pensare che vogliano solo vendere ninnolini religiosi! In Egitto, per dire, gli imprenditori copto-ortodossi quasi sempre investono dove ci sono comunità di loro correligionari e assumono quanti hanno la loro stessa fede. Se vuol farlo, Pietro non ha che da tirare fuori dalla bocca del pesce la moneta... Ti ricordo le sagge parole di Padre Pio, quando parlava di una follia come costruire un modernissimo policlinico in un paesello depresso e isolato del Sud Italia: “La Madonna apre i cuori... ma apre anche i portafogli!”».


Mi pare che le annotazioni storiche di David siano assai pertinenti: il fenomeno della diaspora non è recente, e attualmente si sta verificando non solo in Terra Santa o in altri paesi arabi. È vero che esso riguarda principalmente i cristiani, non solo perché questi se lo possono permettere, ma anche perché hanno un livello culturale superiore e sono piú sensibili al richiamo dell’Occidente.

Rimane il problema che, in tal modo, il Medio Oriente rischia di perdere la componente cristiana, che ha sempre costituito una realtà importante, per quanto minoritaria, di quella regione. Dice David: rimpiazziamoli! L’idea potrebbe sembrare balzana, ma non lo è poi cosí tanto. In parte, ciò sta già avvenendo. La presenza di lavoratori cristiani (soprattutto indiani e filippini) nei paesi del Golfo è una realtà. I filippini in Terra Santa ci sono già: secondo alcune statistiche del 2004 essi ammontavano a circa 40 mila (prima dell’operazione “Piombo fuso”, ce n’erano un centinaio anche a Gaza). Come ho già avuto modo di dire, sono pienamente consapevole del ruolo che i filippini stanno svolgendo, forse senza saperlo, nel mondo. La Chiesa sarà loro a lungo debitrice.

L’ultima proposta di David mi sembra piuttosto interessante. Forse è vero: la Chiesa, oltre a predicare il Vangelo (cosa che ha sempre fatto e continua a fare), dovrebbe recuperare una certa iniziativa in campo socio-economico-politico. Con tutti i rischi che questo comporta. Col rischio di “sporcarsi le mani”. Ma forse si tratta di un rischio da correre. Una Chiesa purissima, che si limita a richiamare i principi, rischia di essere disincarnata e di perdere una delle sue caratteristiche principali: quella di essere “lievito” della società. Nella fattispecie, una “Chiesa-imprenditrice” (non in prima persona, ma attraverso l’iniziativa economica dei suoi membri) mi sembra un’idea da non scartare. Anche perché ciò ha sempre caratterizzato l’azione della Chiesa nel corso dei secoli. Vogliamo davvero aiutare i cristiani in Terra Santa? Le preghiere sono certo importanti, ma forse un aiutino concreto, che non si riduca alla semplice elemosina, non guasterebbe.