venerdì 30 ottobre 2009

Prima conferma di "riforma della riforma"

Ieri La Stampa ha riferito dell’intervista rilasciata dal Cardinale Antonio Cañizares Llovera, Prefetto della Congregazione per il Culto divino, rilasciata a Catalunya Cristiana. Mi sembra un’intervista importante, perché conferma in maniera definitiva che il suddetto dicastero vaticano sta effettivamente lavorando alla “riforma della riforma”, di cui da molto tempo si parla, ma finora poco o nulla si è visto. Alcuni mesi fa Andrea Tornielli, solitamente bene informato, aveva rivelato qualcosa a proposito della “Plenaria” della Congregazione, ma c’era stata un’immediata smentita.

Ora, finalmente, Cañizares, pur rimanendo sulle generali, ammette per la prima volta in pubblico che il suo dicastero ha lavorato intensamente e ha stilato delle proposte che il Santo Padre ha approvato e che costituiscono la base del prosieguo dei lavori. Obiettivo che la Congregazione si propone: «Rivitalizzare lo spirito della liturgia in tutto il mondo». Fin qui, non si può che essere d’accordo, in linea di principio, con Sua Eminenza. Il quale però non scende a maggiori particolari, limitandosi a dire: «Questo non significa semplicemente cambiare rubriche o introdurre nuove cose, ma si tratta semplicemente che la liturgia deve essere vissuta e che deve essere al centro della vita della Chiesa». Anche su questo orientamento generale, non posso non convenire, essendo sempre stato del parere che ciò che rende la liturgia bella non è tanto questo o quel rito, questa o quella rubrica, ma il modo in cui si celebra. Anch’io non vedrei molto bene uno stravolgimento dell’attuale Ordo Missae (che, come ho ripetuto piú volte, trovo equilibrato e ben fatto); ma sono pienamente d’accordo che c’è da recuperare, come dice il Cardinale, «il senso del mistero».

Sua Eminenza non va oltre. Né conferma né smentisce le indiscrezioni estive di Tornielli (recupero del latino, comunione in bocca, orientamento versus absidem almeno durante la consacrazione). Per il momento va bene cosí: sapere che si sta effettivamente lavorando per rivitalizzare la liturgia. Per quanto riguarda i ritocchi formali, non c’è nessuna fretta: prudenza vuole che si ponderi bene qualsiasi tipo di intervento.

L’unica perplessità che mi rimane è che questi discorsi, che — ripeto — condivido pienamente, li ho sempre sentiti: non sono affatto una novità. Quante istruzioni in materia liturgica sono state emanate in questi anni per prevenire e reprimere gli abusi? Tanto per ricordare i piú recenti sforzi di Giovanni Paolo II e Benedetto XVI riguardo all’Eucaristia: enciclica Ecclesia de Eucharistia (17 aprile 2003), istruzione Redemptionis Sacramentum (25 marzo 2004), Anno dell’Eucaristia (ottobre 2004 – ottobre 2005), Sinodo sull’Eucaristia (ottobre 2005), esortazione apostolica post-sinodale Sacramentum caritatis (22 febbraio 2007). Per carità, non si può dire che nulla sia cambiato; certamente non si vedono piú tanti abusi a cui eravamo abituati negli anni immediatamente successivi al Concilio (ricordo una Messa durante la quale la lettura del Vangelo fu sostituita dalla lettura del giornale...); eppure si ha l’impressione che tutti questi sforzi non abbiano partorito i risultati sperati. Sarà, questa, la volta buona? Speriamo; ma, se devo essere sincero, nutro qualche dubbio. Sono sempre stato del parere che, se solo lo si fosse voluto, si sarebbe potuto celebrare decorosamente col Messale che attualmente abbiamo in mano: era sufficiente attuare alla lettera le rubriche in esso contenute. Il problema era — ed è — la mentalità: se rimane l’idea che la Messa la invento io sacerdote con la mia creatività e fantasia pastorale, non ci sarà mai rubrica che tenga. Il problema è: come cambiare la mentalità di buona parte del clero, che è stato formato a questo senso di creatività senza limiti? Per il momento, non ho una risposta da dare.

giovedì 29 ottobre 2009

Ecumenismo ideologico

Giorni fa Antonio Socci scriveva di Eugenio Scalfari che «ha un incedere ieratico e ... sembra portare in processione la sua preziosissima cervice, come fosse un ostensorio» (Libero, 25 ottobre 2009). Qualcosa di simile potrebbe dirsi di Hans Küng, che continua a esporre alla pubblica adorazione le sue monotone lamentazioni, questa volta contro la “pirateria” romana in acque anglicane (Repubblica, 28 ottobre 2009).

Non voglio controbattere punto per punto a Küng: sarebbe tempo perso. Vorrei piuttosto soffermarmi su un atteggiamento abbastanza comune fra questi progressisti, che non riescono a rassegnarsi alla “restaurazione” in corso — secondo loro — nella Chiesa cattolica. Ho l’impressione che la lettura dell’ultimo articolo del teologo tedesco sia rivelatrice delle vere motivazioni del loro atteggiamento.

Si tratta della delusione e della rabbia per essere stati, a un certo punto, messi da parte, dopo che, per molto tempo, era stato dato loro ampio spazio e avevano avuto modo di fare e disfare secondo le loro personali visioni. Avete notato che cosa dice Küng nel suo articolo, a proposito del dialogo ecumenico con gli anglicani? Si era cominciato bene con i «documenti realmente ecumenici» dell’ARCIC, non «mirati alla pirateria, bensí alla riconciliazione». Ma che ne è stato di tali documenti? Scomparvero «il piú rapidamente possibile nelle segrete del Vaticano. “Chiudere nel cassetto”, si dice. “Troppa teologia küngiana”» (attinta, a quanto pare, al volume La Chiesa, dove — a detta del teologo di Tubinga — si trovava la soluzione alla questione ecumenica: dall’impero romano al Commonwealth cattolico!).

Ecco il problema reale: la stizza per essere stati messi da parte nella definizione delle strategie da seguire nella Chiesa. Si è mai chiesto Küng il motivo di tale accantonamento? Certo, per lui la risposta è molto facile: si tratta esclusivamente di una questione di potere. Non sarò io a escludere l’esistenza di lotte di potere all’interno della Chiesa cattolica (e della Curia romana in particolare); dico solo che non si può ridurre tutto esclusivamente a tale dimensione. Sarebbe una lettura ideologica della realtà. Ed è proprio tale lettura ideologica che impedisce a Küng — e a tanti altri con lui — di vedere la realtà per quel che essa veramente è.

Non si è mai chiesto Küng che, forse, il problema stava nelle soluzioni da lui proposte? Non può certo accusare la Chiesa di non avergli dato spazio, di non avergli permesso di diffondere le sue idee e di influire sui documenti del Concilio e sulla teologia postconciliare. Ma evidentemente, a un certo punto, la Chiesa si è accorta che si trattava di pura ideologia, che anziché rinnovare la Chiesa, avrebbe portato alla sua veloce scomparsa. Gli anni hanno dimostrato che, effettivamente, certe posizioni non portavano da nessuna parte: in quei paesi dove la “teologia küngiana” ha avuto maggiore influsso, la Chiesa è ridotta al lumicino. Ma Küng non si rassegna: il problema è Roma. Se i cattolici tedeschi continuano a diminuire, la colpa è di Roma, che si intestardisce a non voler seguire le soluzioni da lui proposte. Non c’è peggior cieco di chi ha gli occhi bendati dall’ideologia.

Non c’è nulla di scandaloso nel proporre, a volte, delle soluzioni inadeguate: Errare humanun est. Ciò che importa è che a un certo punto, quando ci si rende conto dell’inadeguatezza di quelle soluzioni, si aggiusti il tiro. È esattamente quanto sta facendo la Chiesa, dopo il Concilio Vaticano II. Il realismo e la prudenza chiedono che ci si adatti alle situazioni. Per l’ideologo è vero il contrario: è la realtà che deve adattarsi ai suoi schemi mentali.

Per tornare al problema ecumenico, OK: si era partiti con i “documenti realmente ecumenici” dell’ARCIC. A che cosa hanno portato? Hanno portato alla riconciliazione nella Chiesa? No, hanno portato piuttosto al sacerdozio femminile, all’episcopato agli omosessuali praticanti e alla benedizione di coppie dello stesso sesso. Questi fatti — non idee astratte! — non dicono nulla a Küng: per lui rimangono tuttora validi i “documenti realmente ecumenici” dell’ARCIC. La Chiesa, che invece non è indifferente di fronte ai fatti concreti, si adatta alle nuove situazioni e cambia strategia: visto che quei documenti non hanno portato a nulla, vediamo di raggiungere l’unità (magari non con tutti, ma solo con alcuni) percorrendo una strada diversa. No, questo non è ecumenismo, ma “pirateria”: anziché il “Commonwealth cattolico”, «Papa Benedetto vuole assolutamente restaurare l’impero romano».

Ancora una volta, ciò che interessa non è l’effettiva unità della Chiesa (che, a quanto pare, ora con questo Papa “medievale” sembra piú vicina), ma un ipotetico e del tutto astratto “ecumenismo”, che si nutre di sé stesso in una sorta di narcisistico compiacimento ed è totalmente indifferente ai reali risultati a cui conduce.

mercoledì 28 ottobre 2009

A tu per tu, sommessamente

Nel loro ultimo post, gli amici di Messainlatino.it avanzano “Due richieste al Santo Padre”. Naturalmente ciascuno è libero di chiedere ciò che vuole al Papa o a chicchessia; però vorrei, in tutta cordialità, dire due paroline sottovoce alla Redazione del blog e ai suoi numerosi lettori.

Sulla prima richiesta, nulla da eccepire: non vedrei assolutamente male che la domenica pomeriggio si possa celebrare una santa Messa in rito straordinario nella basilica di Santa Maria Maggiore, magari nella cappella del Santissimo Sacramento (dove è sepolto San Pio V: sarebbe anche un modo per venerarne la memoria).

Quel che mi fa qualche problema è la seconda richiesta. Ho notato con piacere i toni piú sfumati usati dalla Redazione rispetto a quelli usati spesso dai lettori in alcuni commenti. In questo caso si chiede “una celebrazione pubblica, o almeno assistenza da parte del Papa alla liturgia straordinaria”. Prendo atto con soddisfazione che la Redazione di Messainlatino.it si rende conto che non si può chiedere al Santo Padre: “Ma allora, quando si decide il Papa a celebrare la Messa tradizionale?”. Personalmente però ritengo che, anche in questa forma piú sfumata, la richiesta sia ugualmente un tantino sopra le righe. Perché?

Riconosco che un po’ tutti (io mi metto come primo della lista) abbiamo la tentazione di tirare il Papa dalla nostra parte. Ma si tratta, appunto, di una tentazione; e come tale dobbiamo riconoscerla e dobbiamo resistervi. Cerchiamo di capire: il Papa è, come si diceva una volta, il “padre comune”, il padre di tutti nella Chiesa; non è il leader di questa o quella corrente ecclesiale, di questo o quel movimento, gruppo o associazione. Proprio perché padre di tutti, è legittimo rivolgersi a lui con fiducia. Ma, allo stesso tempo, bisogna stare attenti a non metterlo in difficoltà.

Sappiamo benissimo quanti problemi debba affrontare ogni giorno per le sue prese di posizione, non sempre accettate da tutti. Fortunatamente, non si scoraggia e va avanti per la sua strada, con mitezza e decisione. Lasciamo però che sia lui a decidere che cosa sia meglio fare nelle diverse situazioni; non pressiamolo con le nostre rivendicazioni; non teniamogli il fiato sul collo; non tiriamolo per la tonaca dove noi vorremmo che andasse. A tirarlo troppo dalla propria parte, si rischia di rendere al Papa un pessimo servizio.

Agli amanti della “Messa di sempre” chiedo: che cosa non ha fatto Benedetto XVI, che poteva fare? Piú che pubblicare il motu proprio Summorum Pontificum; piú che istituire nella sua diocesi una parrocchia personale per i fedeli legati alla tradizione; piú che permettere a cardinali e prelati di Curia di celebrare nel rito straordinario; che altro dovrebbe fare? Già queste decisioni gli hanno attirato un sacco di critiche. Per fortuna, lui se ne infischia (anche se sappiamo che non è ad esse affatto indifferente). Ma ve lo immaginate il putiferio che succederebbe se il Papa celebrasse secondo il rito tridentino?

Dopo tutto, non bisogna dimenticare che il rito tradizionale è, nell’attuale situazione liturgica della Chiesa, solo la “forma straordinaria” del rito romano, rimanendo “forma ordinaria” il Messale di Paolo VI. Mi sembra una cosa ovvia che il Papa celebri la Messa secondo la sua “forma ordinaria”. Con questo non voglio porre alcun limite alle decisioni papali: non ci sarebbe nulla di scandaloso se celebrasse qualche volta anche secondo la “forma straordinaria”; ma questo deve dipendere esclusivamente dalla sua volontà. Non mi sembra rispettoso esigerlo da lui quasi che fosse un dovere.

Un ultimo avviso fraterno: perché voler vedere a tutti i costi, e dappertutto, malafede? Che ci siano resistenze da parte di vescovi, preti e laici, non ci piove. Ma qualche volta ho l’impressione che si scambi per “resistenze” ciò che fa parte dell’ordinaria amministrazione. Un esempio? I cosiddetti “buttafuori” al pontificale celebrato da Mons. Burke in San Pietro. Beh, scambiare gli uscieri della basilica vaticana con dei “buttafuori” che impediscono l’ingresso alla Messa tradizionale, significa non essere mai entrati in San Pietro e non aver mai fatto una visita alla cappella del Santissimo. Quei “buttafuori”, di fronte a quella cappella, ci stanno ogni giorno, e sono lí non per impedire ai fedeli di pregare, ma per difenderli dalle orde dei turisti, a tutto interessati fuorché alla preghiera. Anziché lamentarci, dovremmo essere loro grati per il servizio che prestano.

martedì 27 ottobre 2009

Ecumenismo ed ecumenismo #2

Ricevo da David la seguente, come al solito interessante, testimonianza:


«Ho letto con grande interesse i tuoi articoli sull’ecumenismo, seguendo con attenzione il modo, molto realistico e insieme rispettoso, con cui Benedetto XVI e il cardinale Levada hanno gestito il caso degli anglicani dell’High Church che sono tornati nella Chiesa universale. Le due storie trovano un elemento unificante in questa vicenda che mi appresto a raccontarti e che credo abbia molto da insegnare ai “professionisti dell’ecumenismo”.

Lucrezia Tudor è una signora, oggi di 77 anni, che vive a Pesceana, nella Transilvania. Madre di Mariano, 38 anni, pittore di icone affermato, e di Victor, 43 anni, un sacerdote ortodosso. La storia ha inizio nel dicembre 2002, quando alla donna viene diagnosticato un cancro al polmone che ha già disseminato tutto l’organismo di metastasi. La diagnosi medica è seguita da una raccomandazione amichevole e rassegnata: “Torni dai suoi figli e cerchi di vivere serenamente gli ultimi mesi di vita”. Padre, solo chi ha o ha avuto un malato di cancro in fase avanzata in casa sa che questa malattia, lungi dall’essere incurabile in fase primitiva, quando progredisce è imprevedibile e se si diffonde parecchio lascia davvero poche speranze di vita. Lucrezia non si perde d’animo e raggiunge Mariano a Roma, dove lui vive facendo il pittore e il restauratore. A Roma si sottopone a nuovi controlli che, purtroppo, confermano la diagnosi dei medici romeni. La donna, intanto, si imbatte in una statua di Padre Pio in una chiesetta di Guidonia, in cui il figlio sta lavorando al restauro di alcuni mosaici, e passa intere ore seduta davanti a quel frate con le stigmate: immagino che abbia chiesto di lui. Pare di vedere la Samaritana che parla col Signore senza averlo mai conosciuto... Non so che cosa gli abbia detto, ma fatto sta che al ritorno in Romania le sue condizioni cominciano a migliorare, tanto che viene sottoposta a nuovi controlli, dai quali risulta la guarigione. Completa. Non era stato forse Padre Pio a dire che dopo morto avrebbe fatto “ancora piú danno”? Il miracolo è solo l’inizio, non la fine della storia! Lasciamo parlare Victor: “I medici sono rimasti stupiti davanti alla sua guarigione e poco a poco si è manifestato un grande entusiasmo fra la mia gente: siamo stati testimoni di altri miracoli, di altre donne malate e guarite all’improvviso”. E ancora: “Siamo rimasti stupiti per primi... Mia madre pur essendo ortodossa, si è affidata molto a Padre Pio: quel che mi ha colpito è stata la sua fiducia. Fatico ancora a raccontare la sua storia, eppure mi rendo conto che è un incoraggiamento a sperare sempre”.

Passano gli anni e la goccia scava la roccia: se, secondo il Signore, è piú facile guarire il corpo che perdonare i peccati, allora veramente la riunificazione delle Chiese può essere solo opera sua, non della diplomazia... Infatti, nel giro di pochi anni l’intera comunità — e non solo! — chiede di passare nella Chiesa cattolica. Non oso dire che si convertono, perché le due Chiese, cattolica e ortodossa, sono perfettamente innestate nella successione apostolica. In ogni modo, la situazione non è semplice: Roma è forse piú imbarazzata di Bucarest, dato che si tratta non di singole persone, ma di un’intera comunità col sacerdote, padre Victor. Non sono nemmeno come gli anglicani, dei cristiani di fatto staccati dalla successione, che chiedono di tornare nell’Unico Ovile. Né vivono in paesi multiconfessionali, come Stati Uniti e Australia: sono innestati nel cuore della ortodossa Romania. Fatto sta che per quasi cinque anni il caso non diventa di dominio pubblico sulla stampa. Per fortuna, esiste il rito greco-cattolico e ci sono le strutture giuridiche in cui inserire questi nuovi fratelli. Ma quante esitazioni! La comunità locale, non si perde d’animo e comincia addirittura a costruire un santuario per il santo con le stigmate, inaugurato un anno fa.

Caro Padre, che cosa vuol significare questa storia? Quando si ha modo di intrattenersi con gli ortodossi dell’Est europeo si ha l’impressione che la territorialità sia spesso una scusa per coprire la mancanza di apostolato e una fede che la grandissima parte dei fedeli sperimentano solo a Pasqua. Confessione e comunione frequenti, assiduità alla messa domenicale, adorazione eucaristica, preghiera comunitaria, gruppi di preghiera, apostolato dei fedeli laici ecc. non esistono e non potrebbero esistere dove l’Ortodossia è maggioritaria: i fratelli dell’Est sono come eravamo noi mille anni fa, loro non hanno conosciuto Gregorio VII e San Pier Damiani, San Domenico e San Francesco (venerano comunque il santo umbro e gli dipingono icone!), Sant’Ignazio e Don Bosco, la Riforma e la Controriforma, l’Illuminismo e il Positivismo... Questa immobilità esalta la solennità dei riti e la grandezza della vita monastica, ma pare sempre piú inadatta a affrontare le sfide sociali e culturali del nostro tempo... Le prime dichiarazioni di Cirillo sulla necessità di affrontare il presente e il futuro dialogando con la Chiesa cattolica, invece che scontrandocisi, paiono confermare che la dura politica di Alessio II verso il papa polacco non era solo dettata dalla rivalità tutta slava fra Mosca e Varsavia, anche perché il patriarca di Mosca era di origini tedesche, non slavo; era piuttosto segno di debolezza, per l’incapacità dell’Ortodossia di reggere il confronto diretto con la Chiesa di Roma. Potrei raccontarti tante storie di sacerdoti ortodossi che vivono grazie agli aiuti della Catholica nello sterminato territorio dell’ex URSS, sulle preghiere negate da monaci ortodossi ai malati che non possono pagare il “servizio”, sull’odio verso gli uniati o delle accuse di “comprare” conversioni al cattolicesimo... Tutto conferma che l’Ortodossia è in una fase di debolezza e che appoggiarsi alle autorità statali serve solo come stampella... Se l’incontro a Minsk fra Benedetto e Cirillo ci sarà, non sarà per quarant’anni di sforzi ecumenici, ma perché a Est non si può fare a meno di cercare accordi diplomatici con Roma grazie ai quali arrestare la Cattolicità greca e romana alle porte di Mosca.

Sarà anche per questo che Padre Pio “fa danno” in mezzo alla seconda comunità ortodossa del mondo, quella romena, per indicarci che la soluzione è nella diffusione del Cattolicesimo di rito bizantino e che nelle trattative non si deve perdere di vista che noi siamo dalla parte del vero e del giusto?».


Non posso né confermare né contraddire le affermazioni di David, perché non ho alcuna esperienza diretta del mondo ortodosso; ma mi fa piacere sentire quel che lui dice, perché conferma l’impressione che ne avevo avuto da altre testimonianze. Non ho alcuna difficoltà ad ammettere che il rigido atteggiamento dell’Ortodossia nei confronti della Chiesa cattolica non sia altro che un segno di debolezza. Io ho sempre interpretato in questo modo anche l’intolleranza praticata verso i cristiani dai fondamentalisti islamici o indú. In questi anni che ho vissuto lontano dall’Italia mi sono reso conto che la Chiesa cattolica, per quanto noi ci lamentiamo (qualche volta, ma non sempre, a ragione), ha una vitalità che non si ritrova in alcun’altra confessione religiosa.

Questa vitalità, gli ortodossi la chiamano “proselitismo”; e sperano in tal modo di esorcizzarla. Probabilmente, anziché preoccuparsi di rendere inoffensivo il cattolicesimo, farebbero meglio a unire le forze nell’unica battaglia contro la secolarizzazione dilagante.

Ciò significa che “noi siamo dalla parte del vero e del giusto?”, come chiede David? Mah, certo, che la Chiesa cattolica sia l’unica vera Chiesa, è un dato di fatto. Ma ciò non significa che gli ortodossi non siano “cattolici” (anche loro professano nel Credo la “Chiesa una santa cattolica e apostolica”). L’unico problema esistente nel loro caso è che non vivono nella piena comunione col Romano Pontefice e quindi con la Chiesa universale. Il che non è poco; ma non è neanche quell’abisso che ci separa dalle comunità protestanti e ora, dopo l’introduzione del sacerdozio alle donne, dalla Chiesa anglicana.

Si deve parlare di “conversione” nel caso degli ortodossi? Direi proprio di no. Anche nel passato si preferiva usare l’espressione: “ritorno all’unità cattolica”. Oggi diremmo meglio: “ristabilimento della piena comunione”. Giacché di questo si tratta: di vivere in comunione. Gli ortodossi non devono cambiare nulla nella loro fede; non devono cambiare nulla neppure nelle loro tradizioni; devono solo accettare il primato del Romano Pontefice. A quanto pare, nel recente incontro di Cipro, tutti hanno convenuto che non si tratta solo di un primato onorifico, ma di qualcos’altro. Che cosa? Beh, noi cattolici abbiamo pronta la risposta (“primato di giurisdizione”), ma forse dovremmo fare un piccolo sforzo per interpretare correttamente tale affermazione, presentarla in maniera che possa essere accettata da tutti e, soprattutto, esercitare tale primato in maniera che esso si concili con la tradizione sinodale delle Chiese orientali e con le necessità dei tempi. Quindi, noi cattolici non possiamo solo stare a guardare e aspettare che gli ortodossi ritornino a noi; ma dobbiamo fare da entrambe le parti uno sforzo per venirci incontro reciprocamente. Per questo, sono convinto che i colloqui in corso non siano del tutto inutili.

Ma sono altrettanto convinto che, da soli, tali colloqui non sono sufficienti. L’unità è dono di Dio. E Dio si serve dei suoi strumenti per realizzarla: per esempio, la Madonna (il conte russo, divenuto cattolico e sacerdote barnabita, Agostino Šuvalov e il suo confratello Cesare Tondini de’ Quarenghi erano convinti che il “ritorno” della Chiesa russa sarebbe stato opera della Vergine: c’è una profezia secondo cui un giorno, sulla Piazza Rossa, verrà innalzata la statua dell’Immacolata) o... Padre Pio. Quanto racconta David è la riprova che il rinnovamento della Chiesa non è il risultato di una umana pianificazione, ma frutto imprevedibile della grazia.

domenica 25 ottobre 2009

XXX domenica "per annum"

Quanti ciechi furono guariti da Gesú? Quanti malati furono risanati? Quanti indemoniati furono liberati? Eppure è solo nel caso di Bartimeo che la persona risanata si mette a seguire Gesú. È vero che anche l’indemoniato geraseno avrebbe voluto farlo (Mc 5:18-19), ma Gesú non glielo aveva permesso. In questo caso, invece, non sembra che Gesú si opponga alla decisione di Bartimeo.

Bartimeo aveva chiesto a Gesú di riavere la vista: «Rabbuní, che io veda di nuovo» (ciò significa che non era nato cieco, ma lo era diventato successivamente). Un desidero piú che comprensibile. Ci aspetteremmo che, dopo essere guarito, egli corra a fare tutte quelle cose che fino ad allora è stato impossibilitato a fare. E invece, che fa? «E subito vide di nuovo e lo seguiva lungo la strada»: va dietro a Gesú, che si stava recando a Gerusalemme, incontro alla sua passione.

Quando era cieco, Bartimeo «sedeva lungo la strada a mendicare»; ora che può camminare, segue Gesú. Eh sí, per seguire Gesú occorre camminare; e per camminare bisogna vederci. Un cieco non può seguire Gesú; può solo sedere lungo la strada e mendicare. Questo vale per tutti. Anche noi, se vogliamo seguire Gesú dobbiamo essere risanati dalla nostra cecità: i nostri occhi devono aprirsi, per poter vedere Gesú e per vedere la strada su cui seguirlo.

sabato 24 ottobre 2009

Patriarca dell'Occidente?

Leggo nell’articolo di Paolo Rodari per Il Foglio (ripreso dal suo blog Palazzo Apostolico) che il Metropolita di Pergamo Giovanni Zizioulas, copresidente assieme al Card. Walter Kasper della Commissione mista cattolico-ortodossa, ha denunciato, nell’incontro attualmente in corso a Cipro, che non solo nel mondo dell’ortodossia, ma anche nella Chiesa cattolica vi sono esponenti imbrigliati in un «eccessivo razionalismo dogmatico, e vogliono che nulla sia cambiato». A detta di Rodari, tali parole si riferirebbero «anche a quella decisione di Roma poco digerita in Oriente, almeno dalle chiese che si riconoscono nella pentarchia: l’annullamento del titolo di patriarca d’occidente per il Papa».

Forse nessuno se n’era accorto da noi, ma questo fu uno dei primi atti del pontificato di Benedetto XVI: una decisione presa senza alcun documento ufficiale, che si presentò come un fatto compiuto quando fu pubblicato l’Annuario pontificio del 2006. Fino all’anno precedente, fra i diversi titoli del Papa (Vescovo di Roma, Metropolita della Provincia Romana, Primate d’Italia, ecc.), figurava quello di “Patriarca dell’Occidente”. Nella prima edizione dell’Annuario pubblicata dopo l’elezione di Papa Ratzinger quel titolo era scomparso. La decisione fu giustificata con ragioni di tipo ecumenico.

Quando lessi tale spiegazione, sobbalzai sulla sedia, perché secondo me l’abolizione di quel titolo poteva essere motivata in qualsiasi modo, fuorché con ragioni di tipo ecumenico. Se c’è un titolo che gli ortodossi hanno sempre riconosciuto al Vescovo di Roma è appunto quello di Patriarca dell’Occidente, perché, come giustamente ricorda Rodari, tale titolo mette il Papa sullo stesso livello degli altri Patriarchi della Pentarchia (le cinque sedi patriarcali del primo secolo: Roma, Costantinopoli, Alessandria, Antiochia e Gerusalemme). Ma nessun dibattito seguí a quella incomprensibile decisione: sembrava la cosa piú ovvia liberarsi di quell’anticaglia del passato. Che senso poteva avere ai nostri giorni chiamare il Papa “Patriarca dell’Occidente”?

Ecco che invece ora i nodi vengono al pettine: quella decisione, a quanto pare, gli ortodossi non l’hanno mai digerita. Ci voleva tanto a capirlo? Proprio ieri dicevamo che al giorno d’oggi, quando si deve prendere una qualsiasi decisione all’interno della Chiesa (non solo della Chiesa cattolica, ma di ogni confessione cristiana), si dovrebbe sempre tener conto anche dei risvolti ecumenici di quella decisione. Come in questo caso: che fastidio dava conservare, fra gli innumerevoli titoli del Vescovo di Roma, quel titolo che per secoli era stato tramandato, forse senza neppure rendersi sempre perfettamente conto del suo esatto significato?

Un altro motivo portato per giustificare la soppressione di quel titolo fu che, ai nostri giorni, il termine “Occidente” ha cambiato significato. A tale obiezione, con terminologia scolastica, risponderei: “Concedo”. Oggigiorno “Occidente” ha assunto un significato culturale-politico diverso da quello che poteva avere in passato. Ma non mi sembra questo un motivo sufficiente per abolire il titolo stesso. Prima dell’abolizione, ci può essere un’altra soluzione: la modifica. Non va piú bene “Patriarca dell’Occidente”? OK; che ne direste invece di “Patriarca della Chiesa latina”? Tale espressione, secondo me, esprime lo stesso concetto, ma evitando gli inconvenienti che il titolo tradizionale potrebbe comportare. Se si fosse proceduto a tale modifica, non credo che gli ortodossi avrebbero avuto nulla da ridire, perché per loro il Vescovo di Roma è esattamente questo, il Patriarca della Chiesa latina.

A parte la teoria della Pentarchia (che effettivamente oggi potrebbe apparire un tantino anacronistica), a parte le preoccupazioni di carattere ecumenico, anche se consideriamo la cosa solo da un punto di vista interno alla Chiesa cattolica, secondo il Codice dei canoni delle Chiese orientali (che riconosce l’esistenza di “Chiese sui juris”, perlopiú patriarcali), il Vescovo di Roma, prima ancora di essere “Pastore supremo della Chiesa universale”, è Patriarca della sua “Chiesa sui juris”, vale a dire della Chiesa latina. Ciò non toglie nulla al suo primato universale, ma mette in luce una delle sue molteplici prerogative.

Se abbiamo veramente a cuore l’unità della Chiesa non possiamo ignorare la tradizione. Molto giustamente Sandro Magister alcuni giorni fa faceva notare, sul sito www.chiesa, che «oggi piú che mai, con Joseph Ratzinger papa, il cammino ecumenico appare non una rincorsa alla modernità, ma un ritrovarsi sul terreno della tradizione». Questo è l’unico terreno su cui è possibile ricostruire l’unità. L’«eccessivo razionalismo dogmatico», per dirla col Metropolita di Pergamo, non giova affatto alla causa ecumenica.

venerdì 23 ottobre 2009

Ecumenismo e "uniatismo"

Un lettore mi fa notare che, nell’editoriale di Avvenire del 21 ottobre, Salvatore Mazza ha scritto: «Certo, per la Chiesa cattolica sarebbe stato facile ricorrere a soluzioni piú semplici, come una qualche forma di “uniatismo”». E mi chiede: «Ma che significa? Non le sembra offensivo per i nostri fratelli Cattolici Orientali? Ma che cos’è questo disprezzo per l’uniatismo?».

Anch’io mi chiedo che cosa intendesse Mazza con la sua affermazione, che non mi pare per nulla chiara. Non mi sembra però di ravvisare nelle sue parole alcunché di offensivo nei confronti dei nostri fratelli orientali. Anche se — va riconosciuto — oggi è diventato abbastanza di moda guardare con un certo disprezzo a tale forma di ecumenismo “d’altri tempi”.

Sappiamo che gli ortodossi hanno sempre rifiutato categoricamente il fenomeno uniate, e lo considerano come uno degli ostacoli sul cammino ecumenico. E non c’è da meravigliarsi: nella loro concezione ecclesiologica, è impensabile che sullo stesso territorio ci possano essere piú giurisdizioni. L’Oriente è “territorio canonico” della Chiesa ortodossa; non possono esistere, in quelle regioni, altre Chiese, siano esse di rito latino o anche orientale; un cristiano nell’Est non può che essere ortodosso. Anche se poi, abbastanza incomprensibilmente, loro stessi hanno in Occidente i loro Vescovi che assistono pastoralmente i fedeli ortodossi. Chiedo: l’Occidente non dovrebbe essere “territorio canonico” della Chiesa latina?

L’uniatismo è stato il modo in cui la Chiesa cattolica “ha fatto ecumenismo” nel passato, fino al Concilio. Questo è importante ricordarlo, perché talvolta sembra che la preoccupazione per l’unità dei cristiani sia nata col Vaticano II. Non è affatto vero: la Chiesa ha sempre sentito vivo l’anelito verso l’unità; solo, lo ha perseguito con modalità diverse da quelle odierne. Anziché avere colloqui ecumenici con le altre confessioni (allora semplicemente impensabili), la Chiesa cattolica ristabiliva la piena comunione con alcuni gruppi di cristiani appartenenti a quelle confessioni: in alcuni casi (in Oriente), conservando gli elementi caratteristici della loro tradizione; in altri casi (in Occidente), ristabilendo una gerarchia parallela di rito romano (nei paesi protestanti); in alcuni casi (come in Inghilterra), facendo attenzione a non dare alle sedi vescovili lo stesso nome di quelle anglicane: il Vescovo cattolico di Londra, per esempio, non si chiama in questo modo, ma “Arcivescovo di Westminster” (che è il nome di un quartiere di Londra).

Che giudizio esprimere oggi sul fenomeno uniate? Personalmente, ritengo che le Chiese sui juris (questo è il loro nome tecnico, secondo il Codice dei canoni delle Chiese orientali) svolgano un ruolo importantissimo: esse dimostrano che l’unità (un unità — si badi bene — che non è sinonimo di uniformità e appiattimento) è possibile. È possibile conservare le proprie tradizioni e, allo stesso tempo, vivere in piena comunione con il Romano Pontefice. Ma non penso che questo sia solo il mio pensiero. Perché lo stesso Concilio, al di là delle sue semplicistiche interpretazioni posteriori, ha valorizzato moltissimo le Chiese orientali. Tanto è vero che soltanto negli anni recenti, per la prima volta nella storia della Chiesa, è stato promulgato un Codice di diritto canonico esclusivamente per loro.

Tali Chiese cattoliche orientali sono d’intralcio al cammino ecumenico? Non lo credo proprio. Se ci sono dei cattolici che si sentono profondamente solidali con i loro fratelli non-cattolici appartenenti allo stesso rito, questi sono proprio i cattolici orientali. Che poi ci possano essere delle beghe a livello locale, riguardanti magari le proprietà, è vero; ma queste cose esistono da che mondo è mondo anche fra i cattolici o fra gli stessi ortodossi.

Il problema vero è capire che cosa si intenda per ecumenismo. Se ecumenismo significa incontrarsi semplicemente per discutere e pregare insieme, e poi ciascuno continua ad andare per la propria strada, mi chiedo a che cosa serva tale ecumenismo. Faccio un esempio, tratto proprio dal caso anglicano: non avrebbero dovuto gli anglicani, prima di introdurre certe novità, come il sacerdozio e l’episcopato alle donne, interrogarsi sulle conseguenze “ecumeniche” che tali decisioni avrebbero avuto? No, sono andati per la loro strada, infischiandosene non solo delle reazioni all’interno della loro Chiesa, ma anche della tradizione seguita da cattolici e ortodossi. Tanto per far notare la differenza di stile, vi siete accorti di come la Chiesa cattolica in questa ultima vicenda sia stata attenta alle motivazioni ecumeniche? Teoricamente, essa avrebbe potuto permettere che i Vescovi anglicani sposati, rientrando nella Chiesa cattolica, potessero essere ordinati Vescovi rimanendo sposati. No, per ragioni di carattere ecumenico e storico non lo ha permesso. Questo si chiama ecumenismo; non l’ecumenismo alla “tarallucci e vino”.

Per tornare all’affermazione di Mazza, dicevo che non mi è per nulla chiara. Che significa dire che la Chiesa avrebbe potuto scegliere soluzioni piú semplici “come una qualche forma di uniatismo”? A me sembra — posso sbagliarmi — che la decisione papale di istituire “ordinariati personali” per gli anglicani che chiedono di rientrare nella piena comunione con Roma sia esattamente “una qualche forma di uniatismo”. Ed è per questo che essa è stata digerita con difficoltà, a quanto pare, sia dagli anglicani (nonostante la dichiarazione congiunta di Londra), sia dall’episcopato cattolico britannico, sia soprattutto dal Pontificio Consiglio per l’Unità dei Cristiani (assente alla conferenza stampa dell’altro giorno in Vaticano).

Leggo ora con immenso piacere, sul blog di Sandro Magister Settimo cielo, che John Henry Newman «aveva studiato un piano per creare una sorta di Chiesa anglicana “uniate”, simile a quelle di rito orientale unite a Roma. Il piano aveva l’appoggio del cardinale Manning, all’epoca arcivescovo di Westminster». Praticamente si tratta della medesima soluzione da me auspicata in questo blog (la costituzione di una Chiesa cattolica sui juris di rito anglicano); una soluzione che però probabilmente è ancora prematura. Prematura perché non esistono ancora Chiese sui juris in Occidente; le uniche esistenti sono quelle orientali. Ma non vedo che cosa possa impedire la costituzione di simili Chiese anche in Occidente. Personalmente ritengo che sia l’unica soluzione del problema ecumenico: dare alle comunità separate la possibilità di rientrare nella piena comunione con Roma, conservando le loro tradizioni. Ma comunque diamo tempo al tempo. Per il momento, vanno benissimo gli “ordinariati personali”.

Personalmente ritengo che la decisione del Papa sia veramente importante (qualcuno l’ha chiamata “storica”), perché segna una svolta nell’ecumenismo. È come se Benedetto XVI, dopo aver preso atto degli scarsi risultati raggiunti in questi anni dall’ecumenismo ufficiale, dicesse: “OK, è ora di cambiare registro”. Non riusciremo forse a ristabilire la piena comunione con la Comunione anglicana nel suo insieme (ma come è possibile questo dopo le scelte che essa ha fatto?); ma almeno possiamo ristabilire la piena comunione con alcuni gruppi anglicani. Mi sembra una posizione ragionevole, perché segna il ritorno a una delle caratteristiche che ha sempre contraddistinto Chiesa cattolica e che negli anni recenti sembrava un tantino offuscata: il realismo. L’ottimo è sempre stato nemico del bene: in questi anni ci siamo illusi che fosse possibile ristabilire l’unità con le Chiese e le comunità non-cattoliche semplicemente sedendoci intorno a un tavolo. Dopo quarant’anni, è giunta l’ora di tirare le somme. Quel che si è fatto finora certamente non è stato inutile: forse il risultato ottenuto oggi non sarebbe stato possibile senza quei colloqui, che hanno dimostrato che le differenze non sono poi cosí grandi. Ma non ci si può dimenticare che, oltre alle questioni dogmatiche, ci sono tanti altri elementi (di carattere storico, politico, emotivo, ecc.) che si frappongono sul cammino verso l’unità. Era necessario rompere gli indugi. Benedetto XVI l’ha fatto. È come se avesse detto: Rinunciamo pure a una ipotetica unità universale, che appare sempre piú astratta e lontana; e accontentiamoci di una unità reale, possibile, con quei gruppi che desiderano e sono nella condizione di vivere in comunione con la Chiesa cattolica. Un risultato parziale, ma sicuro, di fronte a prospettive forse affascinanti, ma sempre piú evanescenti.

mercoledì 21 ottobre 2009

Ecumenismo ed ecumenismo

Ieri il Card. Levada ha annunciato la pubblicazione di una Costituzione apostolica con la quale il Santo Padre regolerà il ritorno di gruppi anglicani alla piena comunione con la Chiesa cattolica, “conservando nel contempo elementi dello specifico patrimonio spirituale e liturgico anglicano”.

Le linee che vengono date non sono nuove: sono quelle che sono state finora seguite per l’accettazione di singoli preti o vescovi. La grande novità sta nello strumento giuridico predisposto per l’accoglienza di intere comunità: l’ordinariato personale. Mi sembra una soluzione intelligente e saggia. La Congregazione per la Dottrina della Fede, a quanto pare, aveva suggerito il ricorso alla prelatura personale, che però, nel caso presente, non sembra adattarsi alla varietà delle situazioni locali. La prelatura personale, per sua natura, è unica: tutti i sacerdoti, in qualsiasi parte del mondo dipenderebbero dal medesimo prelato. Di ordinariati personali, invece, se ne possono costituire quanti se ne vuole, anche uno per ciascun paese (come attualmente avviene nel caso degli ordinariati militari). Ciò sembra rispettare maggiormente la natura di “Chiese locali” che queste comunità portano in qualche modo con sé.

In un mio precedente intervento (2 febbraio 2009), avevo avanzato un’altra proposta, quella della Chiesa sui juris (come avviene nel caso delle Chiese orientali cattoliche); ma capisco che sarebbe, per il momento, una soluzione prematura e un tantino rivoluzionaria. La soluzione degli ordinariati personali è invece di piú facile attuazione e può costituire un primo passo verso l’eventuale costituzione, in futuro, di una vera e propria Chiesa sui juris.

Altre due considerazioni. La prima riguarda il rapporto con la Chiesa anglicana. Ufficialmente, tutto si è svolto in piena intesa con la Chiesa d’Inghilterra. In contemporanea con il briefing vaticano c’è stata a Londra una conferenza stampa dei due primati inglesi: l’Arcivescovo di Westminster Vincent Nichols e l’Arcivescovo di Canterbury Rowan Williams, i quali hanno sottoscritto una dichiarazione comune, nella quale si riconosce la sostanziale convergenza nella fede, nella dottrina e nella spiritualità fra la Chiesa cattolica e la tradizione anglicana. Questo a livello ufficiale. I soliti bene informati sostengono invece che Lambeth Palace si sia fermamente opposto alla decisione papale. È possibile; anzi, comprensibile (guardando la foto di Williams ieri alla conferenza stampa, si direbbe proprio che non fosse cosí soddisfatto). Ma, in questi casi, piú che i sentimenti personali, contano i documenti sottoscritti.

La seconda considerazione riguarda il rapporto fra questa decisione e il dialogo ecumenico svolto finora. Ovviamente, a me il ritorno di intere comunità anglicane alla piena comunione con la Chiesa cattolica sembra uno splendido frutto del cammino ecumenico percorso in questi anni; ma non tutti sono dello stesso parere. La Nota informativa della Congregazione per la Dottrina della Fede afferma in proposito: «Il provvedimento di questa nuova struttura è in linea con l’impegno per il dialogo ecumenico, che continua ad essere una priorità per la Chiesa Cattolica, in particolare attraverso gli sforzi del Pontificio Consiglio per la Promozione dell’Unità dei Cristiani». La Dichiarazione congiunta londinese poi insiste molto su questo punto: «Senza i dialoghi egli ultimi quarant’anni, questo riconoscimento non sarebbe stato possibile, né si sarebbero potute nutrire speranze per una piena visibile unità. In questo senso, la Costituzione apostolica è una conseguenza del dialogo ecumenico fra la Chiesa cattolica e la Comunione anglicana».

Sono pienamente convinto di quanto ribadito ieri a Roma e a Londra. Eppure c’è qualcosa che non torna. Come mai il briefing è stato fatto solo dal Card. Levada e da Mons. Di Noia? Mi sta bene che fossero presenti il Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede e il Segretario della Congregazione del Culto Divino, per le loro rispettive competenze; ma possibile che in una circostanza del genere il Pontificio Consiglio per l’Unità dei Cristiani brilli per la sua assenza? Il Card. Kasper, è stato detto, era a Cipro. Non mi sembra una scusa molto convincente.

In un mio precedente post (8 febbraio 2009) facevo notare certe incongruenze. Ancora pochi giorni fa il Card. Kasper escludeva la possibilità di “passaggi di gruppo” al cattolicesimo (vedi qui). Si ha quasi l’impressione che in Vaticano si cammini su due binari diversi. Da una parte un ecumenismo di facciata, fatto soprattutto di bei discorsi, di sorrisi, di strette di mano, di incontri cordiali ma perlopiú inconcludenti; dall’altro un ecumenismo sotterraneo, condotto dall’ex Sant’Uffizio, che, nel silenzio, sembra produrre risultati concreti. Capisco che forse c’è bisogno dell’uno e dell’altro; ma non sarebbe il caso di coordinare un po’ meglio il lavoro, per non dare l’impressione che si perseguano due diversi obiettivi?

martedì 20 ottobre 2009

Ora di Islam nelle scuole?

Si è acceso il dibattito sull’eventuale introduzione dell’insegnamento della religione musulmana nelle scuole. È legittimo che se ne parli. Ieri ho letto due articoli, assai diversi fra loro, ma entrambi interessanti: quello di Vittorio Messori sul Corriere della Sera e quello di Franco Cardini sul Tempo.

Non ho sufficienti elementi a disposizione per inserirmi nella discussione. Vorrei però fare solo una piccola riflessione, che deriva dalla mia esperienza nel settore (per molti anni ho insegnato religione e ho vissuto il passaggio dal vecchio al nuovo Concordato). Ebbene, leggo nell’Accordo di revisione del Concordato Lateranense del 1984:

«La Repubblica italiana, riconoscendo il valore della cultura religiosa e tenendo conto che i principi del cattolicesimo fanno parte del patrimonio storico del popolo italiano, continuerà ad assicurare, nel quadro delle finalità della scuola, l'insegnamento della religione cattolica nelle scuole pubbliche non universitarie di ogni ordine e grado. Nel rispetto della libertà di coscienza e della responsabilità educativa dei genitori, è garantito a ciascuno il diritto di scegliere se avvalersi o non avvalersi di detto insegnamento. All'atto dell'iscrizione gli studenti o i loro genitori eserciteranno tale diritto, su richiesta dell'autorità scolastica, senza che la loro scelta possa dar luogo ad alcuna forma di discriminazione» (art. 9, §2).

È ovvio che la Repubblica italiana avrebbe potuto disporre in maniera diversa: se avesse voluto, avrebbe potuto — che so io — affermare che, essendo il cattolicesimo la religione della maggior parte degli italiani, è concesso alla Chiesa di insegnare il catechismo nelle scuole di Stato, pur riconoscendo agli alunni il diritto di non avvalersi di tale insegnamento. No, il nuovo Concordato ha fatto una scelta diversa:

1. La Repubblica italiana continuerà ad assicurare nelle scuole pubbliche l’insegnamento della religione cattolica. Non si tratta di un insegnamento religioso generico, ma dell’insegnamento della religione cattolica. Allo stesso tempo, però, non si tratta di una forma di catechesi, ma di un insegnamento che si adegua alle finalità della scuola, vale a dire un insegnamento di tipo “culturale”.

2. Il motivo per cui la Repubblica italiana continuerà ad assicurare tale insegnamento è perché essa riconosce il valore della cultura religiosa e perché prende atto che “i principi del cattolicesimo fanno parte del patrimonio storico del popolo italiano”. Non ci sono altri motivi per cui lo Stato italiano si sobbarca la fatica di insegnare la religione cattolica nelle sue scuole: “i principi del cattolicesimo fanno parte del patrimonio storico del popolo italiano”.

Orbene, mi chiedo: a quale titolo dovrebbe essere insegnata nelle scuole la religione islamica ai musulmani? Si dirà: perché i musulmani hanno diritto a conoscere la loro religione. OK, ma questo non è il motivo per cui la religione cattolica viene insegnata nelle scuole di Stato. Che ciascuno abbia il diritto di conoscere e praticare la propria religione, non si discute: è ovvio che i musulmani possono costruire le loro moschee e istituire le loro scuole, dove potranno liberamente impartire l’insegnamento dell’Islam. Ma perché questo dovrebbe essere fatto nella scuola pubblica?

Ripeto: l’unico motivo per cui lo Stato assicura l’insegnamento della religione cattolica nelle sue scuole è perché “i principi del cattolicesimo fanno parte del patrimonio storico del popolo italiano”. Non mi risulta che i principi dell’Islam facciano parte del patrimonio storico del popolo italiano.

Che la conoscenza dell’Islam faccia parte della cultura generale, è vero. Non solo i musulmani, ma anche i cristiani, gli ebrei e gli atei devono conoscere almeno gli elementi essenziali della religione musulmana. La scuola, nei suoi vari insegnamenti (compreso l’IRC) dovrà farsi carico di trasmettere tali nozioni di base. Ma non può assumersi la responsabilità di un insegnamento “confessionale” dell’Islam: non è suo compito.

Se si vuole agire in maniera diversa, è possibile; non ne metto in discussione la legittimità. Ma, a quel punto, bisognerà rivedere anche l’Accordo del 1984 con la Santa Sede e permettere anche alla Chiesa cattolica di fare catechismo nelle scuole di Stato.

lunedì 19 ottobre 2009

Silenzio, preghiera e fiducia

Qualcuno si starà chiedendo come mai non abbia ancora proferito verbo dopo l’annuncio dell’imminente inizio dei colloqui della Santa Sede con la Fraternità di San Pio X, previsto per lunedì prossimo 26 ottobre. Il motivo è semplice: in questo momento, meno di interferisce, meglio è. Di interferenze — di quelle che cercano di intralciare o addirittura impedire tali colloqui — ce n’è già abbastanza; non è necessario che mi ci metta anch’io. Questo, piú che il momento delle parole, è il momento della preghiera. Quello che dovevo dire in proposito, l’ho detto in tempi non sospetti. Quando ho scritto la lettera aperta a Mons. Fellay, qualcuno ha addirittura insinuato che ero stato pagato dal Vaticano per blandire i lefebvriani (!). Volete che ora dica qualcosa? Per il momento, non ho nulla da aggiungere. Penso che l’unica cosa da farsi in questo momento sia di pregare intensamente il Signore e la Madonna e di fidarsi delle persone — mi sembra, tutte rispettabili — a cui è stato affidato l’incarico di condurre i colloqui.

Semmai, si potrebbero aggiungere due paroline a proposito di due interventi, avvenuti sabato scorso. Il primo è quello di Andrea Tornielli sul Giornale. Egli riporta un commento di non meglio precisate “autorevoli fonti vaticane”: «Nessuno vuole tornare indietro o cancellare il Concilio. Si tratta invece di leggerlo e interpretarlo correttamente, come è già stato fatto nel Catechismo della Chiesa cattolica pubblicato nel 1992». Mi sembra, questa, una posizione molto saggia, non solo perché riprende la linea tracciata dal Papa nel suo discorso alla Curia Romana del 22 dicembre 2005, ma anche perché suggerisce un metodo di lavoro. Trovo il riferimento al Catechismo della Chiesa cattolica quanto mai illuminante: la Chiesa cattolica non deve fare nessun dietro front per andare incontro ai lefebvriani (il Concilio, nel suo insieme, non è in discussione neppure da parte lefebvriana), né deve intraprendere un cammino per essa inedito. La Chiesa deve semplicemente continuare a fare ciò che ha fatto finora: essa deve continuare a interpretare correttamente il Concilio, come ha sempre fatto, a incominciare dall’8 dicembre 1965. Il Catechismo ne è uno splendido esempio (ovviamente, come tutte le cose umane, anch’esso avrà i suoi difetti; ma nessuno, penso, potrà accusare il nuovo Catechismo di eresia). Il resto — le interpretazioni del Concilio come rottura, nuovo inizio, ecc. — non conta nulla: si tratta di discutibilissime opinioni personali di singoli e di gruppi, non della posizione ufficiale della Chiesa.

Il secondo intervento è stato quello di Fr. A. R., su Cantuale Antonianum. Esso si riferisce all’annotazione finale dell’articolo di Tornielli, secondo cui i lefebvriani punterebbero «a ottenere dal Vaticano lo status di “prelatura personale”, fino ad oggi riconosciuto soltanto all’Opus Dei». Fr. A. R. dice che, secondo lui, i problemi dei lefebvriani sono altri. Penso che abbia ragione; ma, proprio per il motivo che dicevo all’inizio, preferisco non entrare nel merito. Quanto all’ipotesi di prelatura personale, l’estensore di Cantuale Antonianum afferma: «Sarebbe abbastanza preoccupante che venisse eretta un’altra “anomalia ecclesiologica”, qual è ogni prelatura personale (meglio che ne rimanga una sola), soprattutto quando non ce n’è alcun bisogno per il bene della Chiesa». Personalmente non sarei cosí categorico. Sono d’accordo che non è questo ora il problema all’ordine del giorno: ho l’impressione che i lefebvriani non abbiano alcuna fretta di rientrare nel seno della Chiesa cattolica; la loro priorità è, in questo momento, il chiarimento delle questioni dottrinali. Solo in un secondo tempo, una volta chiariti tutti i dubbi e le incomprensioni (cosa che non sarà cosí facile), si potrà incominciare a parlare delle questioni giuridiche. A quel punto (speriamo che ci si possa arrivare presto!), io non escluderei alcuna soluzione: il diritto è per l’uomo, non l’uomo per il diritto. Personalmente, non considero affatto le prelature personali una “anomalia ecclesiologica”. Certo, in una concezione ecclesiologica strettamente “territoriale” (come quella degli ortodossi, secondo i quali un determinato territorio può dipendere esclusivamente da un Vescovo), le prelature personali sono un monstrum giuridico; ma nella concezione ecclesiologica cattolica, che oltre alla collegialità episcopale prevede anche l’esistenza del primato pontificio, non vedo dove sia la difficoltà. Che l’esistenza di prelature personali possa creare nelle diocesi problemi pratici, non lo metto in dubbio; ma si tratta dello stesso problema posto, da secoli, dagli ordini religiosi esenti. Personalmente, penso che le prelature personali abbiano un importante ruolo da giocare nel futuro della Chiesa, per risolvere tanti problemi, che attualmente sembrano irrisolvibili. Se una prelatura personale può aiutare a ricucire lo scisma lefebvriano, ben venga!

domenica 18 ottobre 2009

XXIX domenica "per annum"

Gesú torna ancora una volta sul destino che lo attende: annuncia per la terza volta la sua passione (Mc 10:32-34). La prima volta (Mc 8:31-33), Pietro lo aveva rimproverato e s’era dovuto sorbire una severa reprimenda da parte di Gesú. La seconda volta (Mc 9:31-37), i discepoli, incapaci di comprendere le parole di Gesú e timorosi di interrogarlo, avevano preferito continuare la loro discussione su chi fosse il piú grande.

Questa volta, mentre salivano a Gerusalemme, presagendo quel che li attendeva, i discepoli «erano sgomenti» (Mc 10:32). Eppure due di loro, Giacomo e Giovanni, i figli di Zebedeo, che passavano per essere fra i prediletti di Gesú, gli si accostano per chiedergli di sedere, quando avrà restaurato il regno d’Israele, uno alla sua destra e uno alla sua sinistra. E «gli altri dieci, avendo sentito, cominciarono a indignarsi con Giacomo e Giovanni». Che meschinità: alcuni cercano il potere e gli altri sono gelosi!

Che fa Gesú? La prima volta aveva perso la pazienza con Pietro. La seconda volta, con piú calma, aveva spiegato ai discepoli che, se volevano essere i primi, dovevano essere gli ultimi. Questa volta Gesú riprende il discorso, per approfondirlo:

«Chi vuole diventare grande tra voi sarà vostro servitore, e chi vuole essere il primo tra voi sarà schiavo di tutti».

Ancora una volta, Gesú non biasima il desiderio di grandezza, connaturato nell’uomo; ma indica una strada da seguire: Vuoi essere grande? Diventa servitore degli altri. Vuoi essere il primo? Fatti schiavo di tutti. E propone sé stesso come modello:

«Anche il Figlio dell’uomo infatti non è venuto per farsi servire, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti».

Autorità non significa farsi servire, ma servire. Il potere non ci viene conferito per spadroneggiare, ma per porci al servizio degli altri. E il servizio, se autentico, giunge al punto di dare la vita per gli altri. La croce, che sembrava essere stata messa momentaneamente da parte, torna in campo come esigenza intrinseca del servizio: chi serve disinteressatamente è disposto a dare la vita per gli altri. Il servizio porta, per sua natura, alla croce.

sabato 17 ottobre 2009

Ritorno alla barbarie

Mi sono state segnalate alcune scioccanti immagini, pubblicate recentemente dal Seoul Times, che mostrano come in Cina i feti abortiti vengano usati anche per preparare una minestra con effetto afrodisiaco. Vi avverto che si tratta di immagini raccapriccianti.

La reazione naturale di fronte a certe notizie e a certe immagini è: dove siamo arrivati! che cosa ci attende? Certo, siamo arrivati a un tale punto di disumanità, che ormai tutto è possibile. Non c’è piú nessun limite oltre il quale non si possa andare.

Ma andavo riflettendo in questi giorni: queste cose accadono in Cina, che non è mai stato un paese cristiano. Probabilmente (sottolineo “probabilmente”, perché non ho fatto alcuna specifica ricerca in merito), certe cose sono sempre avvenute. Per esempio, è risaputo che l’infanticidio (soprattutto femminile) in India è una prassi comune. Ciò significa che dove non è arrivato il cristianesimo non c’è una grande sensibilità per la vita umana. Anche nei paesi attualmente cristiani, prima dell’avvento del cristianesimo, non c’era alcun rispetto per la persona: sacrifici umani, aborto, infanticidio, ecc. Oggi celebriamo Sant’Ignazio d’Antiochia: che cosa fece la grande Roma (la patria del diritto!) con lui? Lo condannò ad bestias. È stato il cristianesimo a introdurre il concetto di “persona” e il rispetto per la vita umana. È stato il cristianesimo a “umanizzare l’umanità”. Prima del cristianesimo c’era la “barbarie”.

Ciò che è inquietante è che l’Occidente, che dal cristianesimo era stato plasmato, ha ormai rinnegato il cristianesimo, e sta cosí regredendo al suo stato primitivo. E non ce ne accorgiamo neppure: a poco a poco i nostri criteri morali si stanno trasformando. Se un giorno ci troveremo sul tavolo una “minestra di bambino con effetti afrodisiaci” (pare che la chiamino in codice “spare rib soup”), molto probabilmente non ci meraviglieremo piú di tanto. Penseremo: in fondo, che male c’è? E lo chiameremo progresso, senza renderci conto che, in realtà, si tratta di “regresso”.

Per fortuna, nel frattempo, ci sono popoli che stanno ripercorrendo il cammino percorso in passato dall’Occidente, quando dalla barbarie passò, grazie al cristianesimo, alla civiltà. Già sapevamo delle persecuzioni contro i cristiani in India. Ora un Vescovo sudanese, presente al Sinodo in corso a Roma, ci informa che i cristiani nel suo paese vengono addirittura crocifissi. Non saranno cristiani “adulti” come noi, ma muoiono per la loro fede. E questa è l’unica speranza per la Chiesa, per i loro paesi, per l’umanità intera. Mentre noi siamo tutti presi a legiferare sulla RU486 e sul reato di omofobia, nel terzo mondo c’è ancora chi è disposto a dare la vita per la sua fede in Cristo. Mentre noi stiamo distruggendo la nostra civiltà e tornando alla barbarie, ci sono dei martiri che stanno costruendo, col loro sangue, una nuova umanità.

venerdì 16 ottobre 2009

Il caso Medjugorje

Il post di martedí scorso su Radio Maria ha riscosso un certo interesse. Sarà forse anche perché in questi giorni si sta svolgendo un incontro dei responsabili delle varie stazioni radiofoniche aderenti alla Famiglia di Radio Maria. Tali responsabili hanno partecipato mercoledí scorso all’udienza generale, e il Papa li ha incoraggiati «a proseguire la loro importante opera a servizio della diffusione del Vangelo» (vedi qui).

Un lettore ha espresso qualche riserva sul fatto che Padre Livio difenda troppo acriticamente il fenomeno Medjugorje.

Il post è stato ripreso anche sul blog Messainlatino.it, soprattutto per chiedere a Padre Livio di trasmettere almeno una Messa in forma straordinaria. Ma, anche lí, diversi interventi sono stati su Medjugorje.

Allora ho chiesto a David che cosa ne pensasse di Medjugorie, e lui mi ha mandato questo pezzo:


«Su tuo invito entro su un tema “caldo” da oltre un quarto di secolo nella Chiesa: mi riferisco alle apparizioni di Medjugorje. Premetto che sono stato là in pellegrinaggio una sola volta, nel 1987, e che leggo con interesse, ma anche in fretta purtroppo, i messaggi due volte al mese... Da qui a definirmi un devoto di Medjugorje ne corre... Sono un osservatore!

Parto da un aspetto poco conosciuto della vicenda, perché molti lo ignorano e i media non ne hanno parlato adeguatamente. Già, perché se Roma non si è espressa sulle apparizioni (e come potrebbe? sono ancora in corso!), la diocesi di Civitavecchia, che è posta sotto quella di Roma, ha approvato il culto della cosí detta Madonnina delle Lacrime di Sangue, che — a detta del vescovo emerito Girolamo Grillo — è stata venerata pure da Giovanni Paolo II nei sacri palazzi. Ora, la statuina di Civitavecchia è la Regina della Pace di Medjugorje, quella delle apparizioni a sei croati dell’Erzegovina. Dubito sempre di certe preannunciate condanne vaticane su Medjugorje perché, dopo Civitavecchia, la Chiesa si contraddirebbe e non poco. Tra l’altro, mi risulta che Medjugorje sia persino nel catalogo dell’Opera Romana Pellegrinaggi e che fior di cardinali si siano recati sul posto. Suggerisco sempre ai miei conoscenti di non dare, poi, grande peso alle condanne della diocesi di Mostar (condanne tra l’altro in antitesi con la posizione della Chiesa croata e dell’arcidiocesi di Zagabria), dato che da decenni è in urto con i Francescani, ai quali fa capo la parrocchia delle apparizioni: è una vicenda per certi versi simile a quella di Saragozza, dove la diocesi e il santuario erano impegnati in una lotta molto accanita quando avvenne, sotto Filippo IV, il “milagro de los milagros”: la Madonna può benissimo prendere posizione in certe stupide beghe che sorgono all’interno della Chiesa. Come sarebbe bello che non accadessero, però...

A parte queste considerazioni, credo che i frutti di Medjugorje — con o senza il riconoscimento della soprannaturalità del fenomeno — parlino da soli: circa tre milioni di persone, battezzate e non, da tutto il mondo vanno ogni anno in una località sperduta e non certo amena della penisola balcanica, ogni giorno migliaia di cattolici si confessano e ricevono la Comunione, ai semplici è annunciata la Novella del Regno, moltissimi giovani cantano e pregano la Regina della Pace, titolo — va ricordato — conferito a Maria da Benedetto XV nel 1917, pochi giorni prima dei fatti di Fatima... Chiederei ai critici che cosa vedono di male in tutto questo... Perché disprezzano questa bella manifestazione di pietà popolare... e infine che vantaggio ne avrebbe la Chiesa a porsi di ostacolo a un fenomeno che potrebbe essere di origina soprannaturale? Davvero il passato non ci ha insegnato niente? Per cinquant’anni sacerdoti, vescovi e persino due papi si sono dedicati a perseguitare Padre Pio, con quale frutto, domando? Perché ripetere l’errore, dimostrando come minimo poca lungimiranza? Se è vero che occorre grande prudenza ed è necessario usare discernimento, è altrettanto vero che è cosa saggia stare a osservare dall’esterno, senza approvare né opporsi, una manifestazione di fede che, almeno per adesso, non ha richiesto pronunciamenti né sfidato l’autorità della Chiesa. Quando è stato necessario, come nei recenti fatti di cronaca, Roma si è mossa: è parso, però, che lungi dallo sfrondare l’albero di Medjugorje da un ramo secco o dal correggerne una devianza, la Santa Sede abbia voluto estirpare un’erbaccia nata lí attorno, ma che nulla aveva a che vedere con la pianta principale. Un po’ come successe a Lourdes, quando si moltiplicarono le false veggenti, per opera del Nemico.

Quanto potremo stare a guardare, senza pretendere prese di posizione? Magari per anni... Medjugorje contiene abbastanza materiale da tenere impegnata la Chiesa per parecchio tempo. Ma non si tratta solo di messaggi della Vergine, sia ben inteso. In pancia al “caso Medjugorje” si trovano centinaia di guarigioni inspiegabili, migliaia di conversioni di peccatori accaniti e persino parecchie decine di fenomeni celesti con decine di migliaia di testimoni. Chi ti scrive ha sulla scrivania, chiuse in un cassetto, alcune foto regalategli nel 1992 da un sacerdote: in esse, assolutamente non passate da photoshop, si vede il sole a Medjugorje che si muove in cielo, prende la forma di una colomba e infine disegna una grande M. Non entreranno mai in nessun processo, ma qualcosa devono significare per un credente anche se di natura portato allo scetticismo. Padre René Laurentin raccontava di essersi stupito a vedere che i passeri, prima tanto turbolenti sotto il tetto della chiesa parrocchiale di Medjugorje, al momento dell’apparizione se ne stavano zitti e immobili... Della chiesa in questione (Medjugorje è e vuol essere una apparizione “per la parrocchia”, non dimentochiamolo) va notato che è intitolata a San Giacomo, proprio l’apostolo a cui Maria apparve in vita mentre stava predicando in terra iberica. È, appunto, la Vergine del Pilar di Saragozza.

Circa la Chiesa e Medjugorje, sicuramente qualcosa di interessante dirà in materia il processo di beatificazione di Giovanni Paolo II, che di Medjugorje è stato un testimone. Già adesso però non mancano i cardinali, i vescovi e le grandi personalità che sono stati nella parrocchia bosniaca in pellegrinaggio. Riporto solo il bel commento di Don Gabriele Amorth, esorcista della diocesi di Roma e presidente degli esorcisti cattolici: “Medjugorje è una fortezza contro satana. Satana odia Medjugorje perché è un luogo di conversione, di preghiera, di trasformazione della propria vita... Il “testamento” di Maria, le Sue ultime parole scritte nel Vangelo, sono «fate ciò che Lui vi dirà». Qui a Medjugorje, la Madonna insiste ancora che le leggi del Vangelo siano rispettate. L’Eucaristia è al centro di tutti i gruppi di Medjugorje, perché la Madonna porta sempre a Gesú. Questo è la Sua principale preoccupazione: farci vivere le parole di Gesú”.

Ricordiamoci infine di Gamaliele: “Non occupatevi di questi uomini e lasciateli andare. Se infatti questa teoria o questa attività è di origine umana, verrà distrutta; ma se essa viene da Dio, non riuscirete a sconfiggerli; non vi accada di trovarvi a combattere contro Dio!”. Meno che mai di trovarci a far guerra a Colei che è “terribile come esercito schierato a battaglia”...».


Se devo dire la mia su tale questione, dirò che, almeno per il momento, sospendo qualsiasi giudizio. Anch’io, come Davide, sto a guardare. Semmai, rispetto a Davide, sono un tantino piú disincantato. Per esempio, sono piuttosto scettico riguardo ai vari fenomeni solari, ricorrenti in non poche apparizioni (magari, una volta o l’altra, vi spiegherò perché). Diversamente da lui, non sono mai stato a Medjugorje. Ciò non mi impedisce però di osservare da lontano.

“Osservare” significa... osservare; non significa chiudere gli occhi. Significa considerare i fatti che avvengono e interrogarsi sul loro valore, senza aver la pretesa di giungere immediatamente a una conclusione. Anch’io rimango impressionato dai “frutti di Medjugorje”, a cui David fa riferimento. Ebbene, il mio ragionamento è: se Medjugorje fosse un’impostura, se fosse cioè un’opera del demonio (è possibile, non possiamo escluderlo a priori), beh, allora dovrei concludere che il diavolo non sa fare il suo mestiere, perché, a quanto pare, i risultati che ottiene sono l’opposto delle sue aspettative. Se invece le apparizioni di Medjugorje sono autentiche, beh, in questo caso, devo dire che il diavolo sta facendo benissimo il suo lavoro, creando divisione, insinuando il dubbio, suscitando cattivi modelli, ecc.

Corre voce che ci sarà presto un pronunciamento di Roma in materia (vi fa riferimento anche il solitamente bene informato Robert Moynihan nella sua Letter #31). Staremo a vedere. Personalmente, non sento tutto questo bisogno di pronunciamenti. Credo anch’io che, in questi casi, l’atteggiamento di Gamaliele sia quello migliore. In ogni modo, non appena Roma si sarà pronunciata (Roma locuta, causa finita), mi adeguerò senza difficoltà al suo giudizio.

giovedì 15 ottobre 2009

Una voce profetica

Ieri ho pubblicato il testo della conferenza tenuta dal Patriarca emerito di Gerusalemme, Mons. Michel Sabbah, alla comunità cattolica araba emigrata in America. Mi sono limitato a definirla “straordinaria” e meritevole di vasta diffusione. Oggi aggiungo: una voce “profetica”. Perché?

Sono parole che vengono da un uomo di Dio, che vive in prima persona il dramma di Gerusalemme. Egli certamente non è super partes; è un uomo di parte, perché appartiene a una delle due parti in conflitto. Ma ciò non gli impedisce di essere obiettivo e di riconoscere i diritti e le giuste rivendicazione di tutti.

È una riflessione profondamente spirituale, che, partendo dalle Scritture e dalla storia, si sofferma sulla vocazione unica di Gerusalemme: città della pace, città universale, città dell’incontro fra popoli, culture e religioni diverse.

Ma, allo stesso tempo, espone con drammatico realismo i problemi che colpiscono questa città, in particolare lo scandalo del muro che la divide, segno materiale dell’odio che divide i cuori dei suoi abitanti. A tale proposito, è interessante notare che il Patriarca cita l’invito del Salmo 50 a ricostruire le mura di Gerusalemme. Qualcuno ha frainteso l’invito e ha pensato bene di costruire un muro a Gerusalemme...

Mons. Sabbah non si limita a descrivere la situazione “straziante” della sua città, ma si sforza di dimostrare che non è per nulla necessario che sia cosí: la città potrebbe senza difficoltà essere contemporaneamente capitale dello Stato d’Israele e capitale dello Stato palestinese e, allo stesso tempo, capitale spirituale delle tre grandi religioni monoteistiche. Aggiungo io: non si tratta di un sogno irrealizzabile; questo è stata Gerusalemme per secoli. Perché oggi non dovrebbe essere piú possibile?

E proprio per non rimanere nel regno dei sogni e dei desideri, il Patriarca avanza una proposta politica precisa. Non si tratta di una novità; questa è stata per lungo tempo la linea seguita dalla Santa Sede a proposito della Città Santa; poi, in seguito ai controversi accordi sottoscritti da Giovanni Paolo II con lo Stato d’Israele, non se n’è piú parlato. Sembrava quasi che il problema non esistesse piú. Ora invece Mons. Sabbah ha il coraggio di rilanciare la proposta, dimostrando che si tratta di una proposta piú che mai attuale:

«Avendo Gerusalemme questo carattere santo e questa vocazione universale, deve avere uno statuto speciale che garantisca i diritti di tutti i cittadini in essa come credenti e cittadini, e al tempo stesso garantisca la libertà di accesso a tutti i pellegrini. Qualsiasi potere politico che governi Gerusalemme deve perciò tener conto di questa vocazione universale della città e darle questo statuto speciale che garantisca i diritti dei cittadini, come capitale per lo Stato palestinese, come capitale per lo Stato d’Israele, e come capitale spirituale per l’umanità».

Spero che l’augurio di Sua Beatitudine ridesti almeno la diplomazia vaticana, facendole ritrovare le sue migliori tradizioni, e che questa si faccia portavoce di tale proposta a livello internazionale.

Prima di terminare, vorrei esprimere un auspicio. Ritengo che la Chiesa di Gerusalemme debba sentirsi sostenuta dalla Chiesa universale. In tal senso, c’è bisogno di un “segnale forte”. Già in altra occasione mi son chiesto — non nego, con una punta polemica — come mai i Patriarchi di Gerusalemme non diventino mai Cardinali. Ci saranno probabilmente motivazioni di ordine diplomatico che lo impediscono. Aggiungo ora: se non è possibile dare la porpora all’attuale Patriarca Twal, non sarebbe possibile darla almeno al Patriarca emerito? Sarebbe un segnale molto chiaro del sostegno della Santa Sede alla Chiesa-madre della cristianità.

mercoledì 14 ottobre 2009

"Gerusalemme, città di pace"

In occasione di una recente visita pastorale alla locale comunità cattolica araba americana emigrata dalla Giordania e dalla Terra Santa nella regione di Los Angeles, S. B. Michel Sabbah, già Patriarca Latino di Gerusalemme, è stato invitato a fare una conferenza sul tema “Gerusalemme, città di pace” (23 settembre 2009).

Si tratta di un testo straordinario, che secondo me merita un’ampia diffusione. Per questo, ho provveduto a farne una mia traduzione. Potete trovare l’originale inglese sul sito del Patriarcato Latino di Gerusalemme.


1. «Quando fu vicino, alla vista della città, pianse su di essa, dicendo: “Se avessi compreso anche tu, in questo giorno, la via della pace”» (Lc 19:41-42).

Oggi queste stesse parole si applicano a Gerusalemme, che vive una situazione di conflitto, di odio e di morte. I leader politici non hanno trovato ancora, fino a oggi, “le vie della pace”. Essi sono riusciti a creare nuove situazioni di fatto, essi sono riusciti a cambiare la demografia e la geografia; ma, in tutto ciò, non si vedono ancora le “vie della pace”.

I leader religiosi, da parte loro, riempiono Gerusalemme con riti e preghiere formali. Ma, dentro questi riti formali, lo stesso cuore che rende culto ha dentro la guerra verso il suo prossimo. Esso adora Dio, ma rigetta le creature di Dio, poiché esse sono diverse, sono differenti, per religione e nazionalità.

Ma, per quanto riguarda la vita e i valori religiosi, dobbiamo anche ammettere l’esistenza di tante persone pie, in tutte e tre le religioni, che adorano Dio e amano gli altri, pur differenti, perché li vedono come figli di Dio. La loro preghiera è silenziosa, nascosta, conosciuta solo a Dio, lo stesso Dio, che ha radunato tutti i diversi popoli — ebrei, musulmani e cristiani — nella sua stessa città santa.

2. Vivere a Gerusalemme è vivere con problemi di vita quotidiana, con tutti quelli che vivono lí, uomini di fedi e nazionalità differenti, e allo stesso tempo vivere con il mistero di Dio in questa città.

I profeti dell’Antico Testamento hanno parlato di Gerusalemme, talvolta con maledizioni per l’infedeltà dei suoi abitanti, talvolta con una visione gloriosa del futuro basata sulla conversione degli uomini, e sulla compassione di Dio che perdona e rinnova piú volte la Sua vita fra gli uomini.

Dio onnipotente e misericordioso, il Signore della storia, insieme con gli uomini di buona e cattiva volontà, ha fatto la storia di Gerusalemme, con tutte le sue diverse fasi attraverso i secoli: l’alleanza di Dio, la permanente fedeltà di Dio, la fedeltà e l’infedeltà degli uomini, e i vari conquistatori che si sono succeduti a Gerusalemme attraverso i secoli fino a oggi. Tutta quella storia, e tutti quegli attori, sotto l’occhio vigilante di Dio, hanno fatto il nostro presente, oggi, a Gerusalemme: due popoli, israeliano e palestinese, e tre religioni, ebrei, cristiani e musulmani, che sono, allo stesso tempo, in conflitto gli uni con gli altri mentre adorano lo stesso Dio.

Gerusalemme è una città di conflitto fra i due popoli che vivono in essa. Nonostante ciò, essa rimane la città di Dio. Perciò, occuparsi di Gerusalemme o dei suoi popoli significa occuparsi del mistero di Dio in essa. Ogni persona che si occupa di Gerusalemme — i leader politici e religiosi in particolare — dovrebbe essere una persona che innanzi tutto adora e prega Dio, chiedendogli ispirazione, luce e sapienza, per conoscere come occuparsi della città e del popolo in essa — siano essi residenti o pellegrini che la visitano — e come trovare le vie giuste di occuparsi del conflitto in corso.

3. Noi cristiani di Gerusalemme e nel mondo guardiamo a Gerusalemme attraverso il mistero di Gesú Cristo, Signore e Dio, che è venuto a salvare il mondo, e a iniziare il regno di Dio sulla terra. La sua predicazione e quella di San Giovanni Battista, il precursore, incominciò con queste parole: «Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino; convertitevi e credete nel Vangelo» (Mc 1:15). Per molti questo compimento ebbe luogo, per altri no. Molti vivono, o si sforzano di vivere, nel regno di Dio su questa terra. Altri no.

Gerusalemme è la città della redenzione del mondo, una città dove l’umanità è stata riconciliata con Dio. E, con la risurrezione del Signore Gesú Cristo, vale a dire il Suo trionfo sulla morte e sul peccato, anche l’umanità — e ogni singolo uomo — è risorta “dai morti” e resa capace di liberare sé stessa dal peccato, di riconciliarsi con Dio e con il proprio prossimo, qualunque siano le differenze fra vicini, religioni, nazionalità, razze o situazioni di conflitto, come nel caso oggi fra i due popoli che vivono in essa.

Una città di redenzione e riconciliazione: questo è per i Cristiani la definizione e la vocazione di Gerusalemme. Essa ha una dimensione universale, rivolta a tutta l’umanità. Questo è un secondo elemento importante della sua definizione. Essere una città santa per tutte e tre le religioni è parte di questo carattere e di questa vocazione che Gerusalemme possiede.

4. Ho vissuto a Gerusalemme per 20 anni come Patriarca di Gerusalemme per i cattolici. La mia prima osservazione sullo stare a Gerusalemme come cristiano è questa: vista la vocazione universale di Gerusalemme, una vocazione di riconciliazione universale, non ci si può rinchiudere nella propria comunità. A Gerusalemme, o si vive con tutti oppure si è fuori della vocazione della città, anche se si vive in essa. Vivere a Gerusalemme da soli, vivere con una visione e un quadro di riferimento ristretti riguardo alla confessione religiosa, rivendicare i propri diritti su Gerusalemme, politici o religiosi, escludendo i diritti degli altri su di essa, è, ancora una volta, vivere contro la missione e la vocazione di Gerusalemme. Escludere l’altro, rifiutare di vedere l’altro, vedere solo sé stessi, non è “ricostruire le mura di Gerusalemme” come dice il Salmo 50. È demolire Gerusalemme ed esporla alla permanente minaccia di guerra, violenza e mali, esattamente l’opposto della sua vocazione di città della redenzione e riconciliazione universali.

Perciò la mia prima osservazione sul vivere a Gerusalemme può essere riassunta nel modo seguente: Vivi a Gerusalemme, il che significa che vivi con Dio e con tutti i figli di Dio in essa. Non puoi rimanere chiuso esclusivamente dentro la tua comunità. Vivi con Dio, e cosí condividi la grazia di Dio con tutti, e condividi le sofferenze e le gioie di tutti. Sebbene può essere difficile vivere all’altezza di questa dimensione universale della città, è un dovere per i cristiani e per ogni credente che rende culto in essa e vuole sinceramente “ricostruire le mura di Gerusalemme” e riportare in essa la gloria che Dio vuole per essa.

Perciò sono vissuto a Gerusalemme, con e per la mia piccola comunità cattolica, ma anche con e per tutti i cristiani, come pure con e per i musulmani e gli ebrei.

Che cosa ho vissuto e visto?

Una città lacerata, piena di conflittualità, cose che fanno soffrire a vederle e a parlarne: un muro che divide le strade principali, facendo un lato israeliano e un lato palestinese; un muro che separa le parti di Gerusalemme, facendo un lato parte di Gerusalemme, e l’altro lato, non piú Gerusalemme; ho visto confiscare terre e case, rimpiazzare gli abitanti delle case, creare nuovi quartieri ebraici, limitando allo stesso tempo ogni sforzo di sviluppo palestinese: il che significa diniego dei permessi di costruzione, e perciò costruzioni senza permesso, il che porta alla demolizione di quelle case... e, peggio di tutto, il veleno dell’odio dell’altro, dovuto alla propria cecità che ci rende incapaci di vedere l’altro come una creatura di Dio.

Ho visto una città voluta dai due popoli, palestinesi e israeliani, come capitale politica, e dai credenti delle tre religioni come città santa e come città di normale vita quotidiana. Sembra non esserci contraddizione nell’essere città santa per le tre religioni monoteiste. Ognuno rende culto in essa e rispetta la sua santità. Ma la realtà è che i sentimenti religiosi sono cosí mescolati con la realtà politica che le cose diventano piú complicate, e il culto non rimane semplice culto, ma diventa un atto politico o un segno di appropriazione della città e di esclusione dell’altro.

I palestinesi hanno rivendicato e a tutt’oggi rivendicano che Gerusalemme Est è o sarà la capitale eterna della Palestina. È loro diritto, e non è esclusivo, in quanto rivendica solo la Gerusalemme Est araba come capitale della Palestina. Israele rivendica che tutta Gerusalemme, Est e Ovest, è la capitale eterna di Israele, non accettando né una città condivisa con sovranità condivisa, né una città divisa con sovranità divisa: uno status dichiarato “nullo” dalla comunità internazionale, ma ancora valido nei fatti.

Quindi i diritti politici dei palestinesi sono esclusi. Quindi gli altri credenti, i palestinesi, siano essi musulmani o cristiani, hanno accesso limitato alla città, a causa delle misure di sicurezza e di una visione di sicurezza. Per coloro che vivono fuori del nuovo muro che circonda Gerusalemme e che la separa dai Territori Palestinesi, l’accesso è soggetto a permessi militari, che sono dati ad alcuni e rifiutati ad altri. E a quei cristiani e musulmani che vivono nei paesi arabi è quasi completamente proibito l’accesso alla città, per la preghiera e per altre ragioni.

Questa è la situazione in cui sono vissuto, e vivo fino a oggi. È una situazione straziante. Da una parte, Gerusalemme parla a ogni credente: riconciliazione e pace dentro il proprio cuore, e pace esteriore estesa a tutti. Non piú ostilità. D’altra parte, l’ostilità è la realtà quotidiana imposta a tutti.

Sí, noi circondiamo Gerusalemme con le nostre preghiere per tutti, scavalcando i muri materiali, come quelli nei cuori. Oltre le preghiere, esistono anche molteplici sforzi di dialogo interreligioso a Gerusalemme, finalizzati a portare gli uomini piú vicini a Dio, e gli uni agli altri. Ma la conflittualità rimane la realtà dominante.

5. Avendo Gerusalemme questo carattere santo e questa vocazione universale, deve avere uno statuto speciale che garantisca i diritti di tutti i cittadini in essa come credenti e cittadini, e al tempo stesso garantisca la libertà di accesso a tutti i pellegrini. Qualsiasi potere politico che governi Gerusalemme deve perciò tener conto di questa vocazione universale della città e darle questo statuto speciale che garantisca i diritti dei cittadini, come capitale per lo Stato palestinese, come capitale per lo Stato d’Israele, e come capitale spirituale per l’umanità.

Chiunque governi Gerusalemme ha il dovere di tener conto di tutta questa storia passata e universale, oggi viva in tutte le sue fasi nelle comunità viventi. Perciò non deve cadere in una visione ristretta, egoistica, nazionalistica, esclusivistica: una visione che esclude gli altri, insieme con la loro lunga storia, cancellandola, e imponendo oggi una nuova realtà che lavora contro la sopravvivenza di tutte le identità con uguali diritti e doveri a Gerusalemme, e condanna la città a rimanere una fonte di guerra.

Un vero credente — ebreo, cristiano o musulmano — deve innalzarsi al livello della santità che Dio vuole per la città, al livello della santità di Dio stesso, il che significa, la capacità di rispettare e accogliere tutti i figli di Dio in essa, dando loro uguali diritti e doveri, senza alcuna discriminazione per motivi religiosi o politici. È nella misura in cui il vero credente può innalzarsi al livello della sua santità, che Gerusalemme può vincere tutte le forze di conflitto e tutto il male della guerra in essa.

6. Esiste a Gerusalemme un Consiglio delle Istituzioni Religiose, un consiglio interreligioso, nel quale il Gran Rabbinato rappresenta la parte ebraica, il Ministro degli Affari Islamici la parte musulmana, e i 13 capi delle Chiese rappresentano la parte cristiana. È un consiglio di dialogo interreligioso. Il dialogo verte sulla vita quotidiana e, di conseguenza, sulla situazione politica che impone questa vita quotidiana. Ci incontriamo per raggiungere una visione comune della Città Santa e della Terra Santa. Ma finora siamo riusciti a metterci d’accordo solo sul fatto basilare che Gerusalemme è una città santa per tutti. Si sta preparando una bozza, e sarà pubblicata in un prossimo futuro, che definisca i punti su cui siamo d’accordo e i punti su cui non lo siamo. Speriamo che un giorno la grazia di Dio e leader politici piú saggi permettano alla città di essere un centro di riconciliazione per tutti e una città dove cessino tutte le ostilità.

I Patriarchi e i Capi cristiani delle Chiese di Gerusalemme, da parte loro, hanno pubblicato due documenti sullo status di Gerusalemme e il suo significato per i cristiani: il primo nel 1994 e il secondo nel 2006. Concludo questa conferenza citando alcuni passi del secondo documento, del settembre 2006:

«Con la costruzione del muro molti dei nostri fedeli sono esclusi dai confini della Città Santa, e secondo i piani pubblicati sulla stampa locale, molti di piú lo saranno in futuro. Circondata da muri, Gerusalemme non è piú al centro e non è piú il cuore della vita come dovrebbe essere.

Consideriamo parte del nostro dovere attirare l’attenzione delle autorità locali, come pure la comunità internazionale e le Chiese del mondo, su questa gravissima situazione e invocare uno sforzo concertato a cercare una visione comune sullo statuto di questa Città Santa, basato sulle risoluzioni internazionali e che tenga conto dei diritti dei due popoli e delle tre comunità religiose che vivono in essa.

In questa città, in cui Dio scelse di parlare all’umanità e riconciliare i popoli con sé e fra di loro, leviamo le nostre voci per dire che le strade seguite finora non hanno prodotto la pacificazione della città e non hanno assicurato una vita normale per i suoi abitanti. Perciò esse devono essere cambiate. I leader politici devono cercare una nuova visione e nuovi mezzi.

Nel disegno di Dio due popoli e tre religioni sonno vissuti insieme in questa città. La nostra visione è che essi dovrebbero continuare a vivere insieme in armonia, rispetto, accettazione reciproca e cooperazione».

Conclusione

«Quando fu vicino, alla vista della città, pianse su di essa, dicendo: “Se avessi compreso anche tu, in questo giorno, la via della pace”» (Lc 19:41-42).

Gerusalemme deve essere una città di pace, ma oggi non è cosí.

Oggi la santità è trasformata in contesa e in controversia politica. La persona umana ne è la vittima. La storia ne è la vittima. La religione ne è la vittima, sia essa il Giudaismo, il Cristianesimo o l’Islam: perché nessuna di esse è chiamata, come tale, a essere una fonte di controversia, o a rendere la coesistenza di tutti qualcosa di impossibile.

Le “vie della pace” a Gerusalemme sono basate su tre principi: primo, accettare la volontà di Dio come Egli l’ha manifestata attraverso le Sacre Scritture e attraverso la storia. Attraverso le Sacre Scritture e attraverso la storia Dio ci ha riunito tutti a Gerusalemme: ebrei, cristiani e musulmani. Secondo, le Sacre Scritture hanno dato a Gerusalemme una dimensione universale, facendone un luogo da essere condiviso da tutta l’umanità, a cominciare da coloro che vi abitano, israeliani e palestinesi. Terzo: piú importante del luogo santo è Dio, che santifica quel luogo. Il comandamento di Dio è di adorarlo e di amare tutte le sue creature. Nella stessa prospettiva, la persona umana è il tempio vivente di Dio, ed è perciò piú importante di qualunque luogo.

Alla luce di questi tre principi: la santità della città, la sua universalità come luogo da condividere, e la priorità dell’essere umano, la questione religiosa e politica di Gerusalemme deve essere risolta.

Gerusalemme non può essere una proprietà esclusiva di nessuno; lo stesso vale di Dio stesso, che non può essere proprietà esclusiva di nessuno: Egli è il Dio creatore di tutti. Tutto a Gerusalemme deve riflettere questa vocazione divina e la condivisione è la strada attraverso cui questo può essere raggiunto. Con la condivisione nessuno è sottomesso all’altro. Nessuno dei suoi abitanti è soggetto alla paura, o dominato da essa, o ridotto allo stato di minoranza o di straniero. Tutti sono uguali in dignità, nei diritti e nei doveri religiosi e politici, nel riconoscimento reciproco e nella libertà di religione. Ciascuno godrà Gerusalemme come essa è: una città di Dio, una città di pace, una città in cui ciascuno è riconciliato con Dio e con tutti i suoi fratelli, di tutte le nazioni e religioni.

+ Michel Sabbah, Patriarca emerito


Chapman University chapel (Orange, CA)
Claremont School of Religion Library, 831 N. Dartmouth, Claremont.
23 settembre 2009

martedì 13 ottobre 2009

Fede e impresa: il caso di Radio Maria

Ricevo da David e pubblico il seguente intervento che torna sul problema del rapporto tra fede e impresa.


Davvero l’automobile, piú che i mezzi pubblici, è un dono di Dio agli uomini di questo nostro tempo perché ci permette di trovarci per molti minuti o anche per intere ore soli con Lui. Questa mattina mentre guidavo sono “inciampato”, come spesso mi capita, su Radio Maria.

Quella che molti considerano con fastidio solo la “radio dove recitano sempre il rosario” è in realtà una delle stazioni radio piú seguite d’Italia, con una media di quasi 2 milioni di ascoltatori al giorno e punte di 4 milioni. E credimi, non sono solo vecchiette: mi risulta che sia ai primi posti fra i camionisti, gli studenti e i rappresentanti! Per costoro, ha costruito oltre 850 ripetitori sparsi in tutto il territorio nazionale, piú di qualunque altra radio italiana, persino piú della Rai! Nata come una semplice radio parrocchiale in quel di Como, si è dotata subito di identità e carisma particolari, che la rendono lontana dall’essere una delle tante emittenti cattoliche del paese. Leggiamo che cosa scrive di sé: “Pur costituendosi come associazione civile, fece fin dall’inizio una scelta radicale per un palinsesto che fosse completamente di ispirazione religiosa, col fine esplicito di animare la preghiera, di risvegliare la fede e di avvicinare i piú lontani a Dio e alla Chiesa. Questa scelta risultava allora controcorrente anche in rapporto alle altre radio cattoliche, dove le tematiche religiose erano piuttosto marginali nel palinsesto. Il fatto poi di ispirarsi al nome di “Maria” conferiva al progetto una profonda ispirazione mariana. Essa si concretizzata innanzi tutto nella convinzione dei dirigenti, dei conduttori, dei volontari e di gran parte degli ascoltatori che ci si trovasse di fronte a una emittente “dono di Maria” per tutta la Chiesa. Nel corso degli anni infatti è stato l’amore per la Madonna il motore dell’intero progetto, mentre il palinsesto si andava modellando come una forma di annuncio del vangelo sotto la guida di Maria, Madre della Chiesa”. Insomma, al di là di porsi l’etichetta di “cattolico” per poi razzolare un po’ ovunque, Radio Maria “ha scelto la parte migliore” e se la tiene stretta come la peccatrice del Vangelo che non molla i piedi del Signore.

Radio Maria fa tutto questo in modo globale: costituisce, infatti un network internazionale di radio che opera in cinque continenti, facendo capo all’Italia. Dagli Stati Uniti al Canada, dal Messico a Panama, dalle Filippine all’Indonesia, dal Libano alla Russia, dalla Spagna a Papua Nuova Guinea: la Catholica vanta poche opere di comunicazione sociale cosí diffuse e ben inculturate. Radio Maria, infatti, parla spagnolo in Texas, francese e arabo in Medio Oriente, italiano a New York, russo nella Federazione Russa, tagalog nelle Filippine ecc. Veramente, uno sforzo meraviglioso per confermare vieppiú che “tutte le generazioni... chiameranno beata” Maria di Nazareth!

Questa mattina Padre Livio Fanzaga, il padre scolopio che ne è fondatore e direttore, ha parlato in diretta all’assemblea dei dirigenti delle radio sorelle e, per noi che da alcune settimane riflettiamo su cattolicesimo e impresa (o, per dirla col nuovo presidente dello IOR, su “denaro e Paradiso”), ha detto molte cose interessanti.

Se togliamo l’aggettivo “commerciale”, Radio Maria è senza dubbio una gran bella impresa, visto che poggia esclusivamente sul lavoro di volontari non salariati e sulle donazioni, tutte quante di piccole dimensioni. Anche se non fa profitti, Radio Maria maneggia denaro, eccome. Il buon parroco comasco parlando al cuore dei sacerdoti che dirigono le radio ha detto qualcosa di istruttivo anche per tutti quegli uomini di Chiesa che disprezzano l’economia e non pensano che la Catholica debba avere a che vedere con l’impresa: lorsignori, forse, si fanno scrupoli quando devono raccogliere fondi per le loro parrocchie e le loro iniziative? Si tirano indietro quando hanno bisogno di donazioni? Certo che no: capiscono benissimo che la Chiesa per i propri progetti ha bisogno di soldi. Prima riflessione ispirata da Padre Livio: i soldi non cambiano odore se passano dalla mano di un imprenditore a quella di un parroco, non transitano da mammona a Dio. Perché allora non capire che l’imprenditore, al di là del fatto di fare donazioni per i poveri o no, può svolgere una grande funzione evangelizzatrice? L’impresa aperta al Signore, quella che rispetta i suoi comandi (giorno di riposo, paga giusta, rispetto delle leggi) ma anche quella dove la Verità può trovare terreno buono (cappellanie, Messe e cerimonie per le festività, disponibilità alla preghiera e alla Parola) è certamente, parafrasando le parole di un imprenditore sulla via degli altari, quel Martin che dette la vita a Santa Teresa di Lisieux, “il miglior investimento”.

Seguiamo ancora un po’ Padre Livio. Stamani con concretezza e fervore ha identificato il tesoro di Radio Maria, i suoi volontari e dirigenti: la radio ha successo dove i suoi capi sono piú capaci ed è in difficoltà là dove mediocri dirigenti portano avanti il progetto. Cattivi dirigenti gettano discredito o semplicemente fanno languire la radio; volontari non capaci non portano frutto. Quanto è importante quindi investire in formazione e nel miglioramento delle risorse umane. Il vero capitale non sono i soldi: quelli ci vogliono, ma vengono dopo. Prima di tutto ci sono gli uomini, che determinano il successo o meno di un’impresa, per quanto buona questa sia. Seconda riflessione ispirata da Padre Livio: l’imprenditore cattolico non è un caporale che assume dei salariati, ma qualcuno al quale verrà chiesto conto dei talenti ricevuti. Se non li avrà fratti fruttare e moltiplicati, il Padrone gli domanderà ragione della sua cattiva amministrazione, punendo eventualmente proprio lui. Ecco quindi uno spunto interessante: l’impresa “catholically correct” deve investire nella selezione, nella formazione e nel miglioramento delle risorse umane e trattarle come i poveri del Vangelo, quelli che sono “il vero tesoro” della Chiesa.

Se la responsabilità sociale è grande, altrettanto importante è la risposta: le risorse umane non sono meri esecutori, ma veri rappresentanti dell’impresa all’esterno. Radio Maria può privarsi di quelle risorse che non la rappresentano, ma semplicemente credono di vivacchiare come lo stolto che nasconde sotto terra il talento. L’ultima riflessione è proprio questa: l’impresa di chi (mi ripeto, lo so) vuol conquistare il mondo intero senza perdere la propria anima è solida e seria: “chi non raccoglie con me disperde” vale anche per quanti non rispondono seriamente alla proposta dell’imprenditore o all’imprenditore stesso che non sa scegliere il meglio. Pensiamo a quanti, senza scrupoli, non mettono sul mercato prodotti di qualità o addirittura distribuiscono articoli nocivi per i consumatori. Ma anche a quanti non vedono nel proprio lavoro una via di miglioramento sociale e spirituale, ma solo un dovere da compiere o peggio qualcosa da fare con trascuratezza.

Infine, Maria... La Vergine era sposa di un carpentiere o forse di un piccolo imprenditore che collaborava come terzista alla costruzione delle strade e dei palazzi romani. La Vergine prudentissima è senz’altro il miglior esempio per l’imprenditore attento. Parafrasando le parole di papà Benincasa alla figlia, la futura Santa Caterina da Siena: “Ti metti sotto la protezione di Maria? Di certo, miglior guida la tua impresa non avrà!”.


Non ho molto da aggiungere a quanto scritto da David. Anch’io, quando sono in Italia e mi trovo a viaggiare in auto, spesso lo faccio in compagnia di Radio Maria. La cosa che mi ha sempre colpito è che essa non è frutto di una pianificazione umana: nessuno ha mai concepito l’idea di mettere su un’impresa come quella di Radio Maria. Come giustamente ricorda David, essa doveva essere una semplice radio parrocchiale dell’Alta Brianza; ed è diventata un network internazionale! Guardate invece che cosa ne è dei grandi “progetti culturali”: Sat2000 e Radio in Blu, mi sapete dire chi le segue? E non mi risulta che esse vadano avanti grazie al volontariato e alle offerte degli ascoltatori. La lezione dovrebbe essere chiara: chi manda avanti la Chiesa non siamo noi, ma il divino Imprenditore. A noi non viene chiesto di elaborare progetti, ma di avere fede ed essere a disposizione per la realizzazione dei progetti del Capo.