mercoledì 28 aprile 2010

Occhio!

Si direbbe che, dopo la tempesta scatenatasi sulla Chiesa negli ultimi mesi, la lancetta del barometro incominci a puntare di nuovo sul bello. Non che tutto sia finito, ma sembrerebbe che il peggio sia passato. Anche se il New York Times continua a lanciare i suoi strali, ormai nessuno piú gli dà retta: appare evidente a chiunque che si è trattato esclusivamente di una campagna strumentale per attaccare la Chiesa e, in particolare, il Papa. Con questa campagna la “Vecchia Signora Grigia” (the Old Gray Lady) ha perso completamente la faccia e sarà piuttosto difficile recuperare un po’ di credibilità. Al contrario, la figura di Benedetto XVI esce da questa vicenda non solo incontaminata (tutte le accuse a lui rivolte si sono rivelate infondate), ma direi addirittura rafforzata. Certamente la sua popolarità (se essa può essere considerata un valore nella Chiesa) non ne ha in alcun modo risentito; semmai, a stare alle ultime esposizioni pubbliche (in particolare la visita a Malta), essa è aumentata.

Tutto bene, dunque? Beh, personalmente non mi sento cosí tranquillo, perché la popolarità non è l’unico criterio per giudicare lo stato di salute della Chiesa. È vero che, se crediamo nell’indefettibilità della Chiesa, non dovremmo preoccuparci piú di tanto. L’esperienza stessa ci insegna che la Chiesa ha passato bufere ben peggiori nel corso dei secoli, e sempre ne è uscita egregiamente; anzi spesso quelle bufere sono state l’occasione per una purificazione e un innalzamento morale. Questo è vero; ma, umanamente parlando, ciò non toglie che si possa essere preoccupati per le conseguenze che certi fenomeni possono avere nella sua vita. Non possiamo illuderci che questa buriana passi senza lasciare il segno. Direte: se tutto questo porterà a una maggiore pulizia, a una maggiore coerenza del clero e dei fedeli, non c’è che da rallegrarsi. Io, che comincio a non essere piú cosí giovane e che, per motivi professionali, devo continuamente studiare la storia, non sarei tanto ottimista.

Secondo me, questo uragano i suoi danni li ha già fatti e, se non stiamo attenti, potrebbe farne di peggiori. Si dirà: che cosa è peggio? che il male esista o che venga a galla? Non si può negare che, fra i preti, esistesse la pedofilia; dunque dobbiamo rallegrarci se la pubblica denuncia di questa piaga può servire a porvi rimedio. Va serenamente riconosciuto che forse in qualche caso il fenomeno è stato sottovalutato; ma non possiamo illuderci di fare pulizia attraverso la gogna mediatica (perché di questo si tratta): i metodi della Chiesa sono altri. Cercherò dunque di elencare alcuni dei “danni” che, a mio parere, questa vicenda sta provocando nella Chiesa.

In questi giorni si parla solo di abusi. Non so se vi siete accorti come il “potere” riesca sempre a dettare l’agenda della Chiesa: c’è stato il periodo in cui si parlava solo di pillola; poi è arrivato il tempo del preservativo; ora è il momento degli abusi. E le energie della Chiesa sono tutte concentrate nel difendersi, nello spiegare, nel rilasciare chiarificazioni su ciascuno di questi argomenti, distogliendo l’attenzione da quella che dovrebbe essere la principale preoccupazione della Chiesa: l’annuncio di Gesú Cristo e del suo vangelo. Guarda caso, si tratta sempre di questioni morali, cosí che la Chiesa, se non sta attenta, rischia di cadere in un modo o nell’altro nel moralismo, che è l’antitesi del cristianesimo. Per fare solo un esempio pratico, limitato ma significativo: avete notato come l’incontro con le vittime degli abusi a Malta (in sé stesso ottimo), a un certo punto, abbia finito per concentrare tutta l’attenzione dei media, trascurando cosí tutti gli altri aspetti (anche l’entusiasmo popolare, perché no?) di quella visita?

Dobbiamo poi stare attenti alle conseguenze impreviste e non volute di certe prese di posizione. Mi spiego con un esempio: quando Giovanni Paolo II indisse gli incontri interreligiosi di Assisi, lo fece con le migliori intenzioni; ma che cosa rimase di quei raduni nell’immaginario collettivo? Che tutte le religioni si equivalgono. Cosí ora sono state rese pubbliche le nuove guidelines per come gestire i casi di abusi. Non ho alcun rilievo da fare in proposito; anzi, le trovo molto ben fatte. Ma — diciamoci la verità — che cosa è passato al grande pubblico? Che, d’ora in poi, i Vescovi sono obbligati a denunciare i preti pedofili. Hai voglia a precisare che nelle guidelines c’è scritto qualcosa di diverso («Va sempre dato seguito alle disposizioni della legge civile per quanto riguarda il deferimento di crimini alle autorità preposte»); tutti continueranno a essere convinti che i Vescovi devono denunciare i loro preti alla magistratura.

Un altro danno, che potrebbe rivelarsi devastante, sono le divisioni all’interno della Chiesa. In non pochi fedeli si potrebbe far strada l’idea che, sí, il Papa è un galantuomo, ma i preti sono tutti pedofili e i Vescovi, se non sono pedofili, sono dei complici, il cui unico intento è quello di coprire, occultare e insabbiare. Se si dovesse arrivare a questa conclusione, sarebbe la fine della Chiesa. Stiamo attenti a non incoraggiare le contrapposizioni fra Papa e Vescovi, fra Papa e Curia, fra Chiesa di ieri e Chiesa di oggi: tali contrapposizioni non giovano in alcun modo alla Chiesa. Dobbiamo sapere che se cadiamo in questo tranello, diamo ragione ai nemici della Chiesa, che non vogliono altro che la sua divisione. Stiamo attenti a non fare del Papa il leader di un partito e ad auspicare che nelle diocesi e nei dicasteri romani siano nominati solo “ratzingheriani” d.o.c. Ma ci rendiamo conto che, cosí facendo, si snatura la Chiesa?

Un rischio ancora piú subdolo è quello di adeguarsi, senza accorgersi, alla mentalità di questo mondo. Nell’ansia di difendersi, si fanno propri i valori mondani, rischiando di dimenticare quelli evangelici. Faccio solo un esempio (che naturalmente meriterebbe ben altro approfondimento), tanto per far capire il problema. Si ripete continuamente — e nessuno si sognerebbe di metterlo in discussione — che nella Chiesa deve esserci piú “trasparenza” e che è ora di eliminare per sempre le “coperture” che hanno contraddistinto finora il suo operato. Ora, non mi risulta che la “trasparenza” (la glasnost di gorbacioviana memoria) sia un valore evangelico (semmai nel vangelo si parla di verità, non di trasparenza); mentre in piú passi della Scrittura di dice che «la carità copre una moltitudine di peccati».

Ma il rischio peggiore — per altro rilevato da Antonio Socci — è quello di voler “addomesticare” il papato; quello di voler arruolare Benedetto XVI nelle file dell’Occidente, come vorrebbe Ernesto Galli della Loggia. Chi conosce un po’ la storia, sa come questo sia stato il tentativo del potere di ogni tempo: fare del Papa il “cappellano” dell’imperatore di turno. Questo lo si potrà fare con le chiese ortodosse o con quelle protestanti, ma non si può pensare di farlo con la Chiesa cattolica, che per definizione è universale. È ovvio che quando c’è qualcuno che aspira al dominio universale, inevitabilmente finisce per imbattersi nella Chiesa cattolica, che potrebbe in qualche modo ostacolargli il passo. È già successo e continuerà a succedere. L’importante è esserne consapevoli.

lunedì 19 aprile 2010

Laudes regiae



Christus vincit. Christus regnat. Christus imperat. [...]

Exaudi, Christe. Exaudi, Christe.

Benedicto Summo Pontifici,
in unum populos doctrina congreganti, caritate:
Pastori gratia, gregi obsequentia.

Salvator mundi. Tu illum adiuva.
Sancte Petre. Tu illum adiuva.
Sancte Paule. Tu illum adiuva. […]

Christus vincit. Christus regnat. Christus imperat.

Rex regum. Rex noster.
Spes nostra. Gloria nostra. [...]

Christus vincit. Christus regnat. Christus imperat.

Ipsi soli imperium, laus et iubilatio,
per infinita saecula saeculorum. Amen.

Tempora bona habeant!
Tempora bona habeant redempti sanguine Christi!

Feliciter! Feliciter! Feliciter!

Pax Christi veniat! Regnum Christi veniat!
Deo gratias. Amen.

venerdì 16 aprile 2010

God Bless Our Pope!

Oggi, compleanno del Santo Padre, vorrei dedicargli questo inno composto dal Cardinale Nicholas Wiseman (1802-1865), primo Arcivescovo di Westminster (dopo il ristabilimento della gerarchia cattolica in Inghilterra e nel Galles nel 1850). Non sapevo neppure che esistesse; ne sono venuto a conoscenza — pensate un po’ — nella cattedrale di Bangalore, in India. Per me, nato e cresciuto all’ombra del Cupolone, sentir cantare a tanti chilometri di distanza questo inno per il Papa, è stata un’esperienza indescrivibile. Non nascondo di essermi commosso.




Full in the panting heart of Rome,
Beneath the apostle’s crowning dome,
From pilgrims’ lips that kiss the ground,
Breathes in all tongues only one sound:

“God bless our Pope, God bless our Pope,
God bless our Pope, the great, the good.”

The golden roof, the marble walls,
The Vatican’s majestic halls,
The note redouble, till it fills
With echoes sweet the seven hills:

Then surging through each hallowed gate,
Where martyrs glory, in peace, await,
It sweeps beyond the solemn plain,
Peals over Alps, across the main:

From torrid south to frozen north,
That wave harmonious stretches forth,
Yet strikes no chord more true to Rome’s,
Than rings within our hearts and homes:


Nel pieno del palpitante cuore di Roma,
sotto la somma cupola dell’Apostolo,
dalle labbra dei pellegrini che baciano il suolo,
soffia in tutte le lingue un solo suono:

“Dio benedica il nostro Papa, Dio benedica il nostro Papa,
Dio benedica il nostro Papa, il grande, il buono”.

Il tetto dorato, i muri di marmo,
le maestose sale del Vaticano,
la nota oltrepassi, finché riempia
con echi dolci i sette colli:

Sollevandosi poi attraverso ogni sacra porta,
dove i martiri attendono, in pace, la gloria,
dilaga oltre la solenne pianura,
risuona al di là delle Alpi, dall’altra parte del mare:

Dal torrido sud al gelido nord,
quell’onda armonica si allunga,
non suona alcuna corda piú fedele a Roma,
che gli squilli nei nostri cuori e nelle nostre case:

mercoledì 14 aprile 2010

Tiepidezza e santità

Le polemiche di questi giorni mi hanno fatto tornare in mente una conferenza che tenni otto anni fa al clero della diocesi di Acerra, in occasione del quinto centenario della nascita di Sant’Antonio Maria Zaccaria. Mi è tornata in mente, perché vi avevo fatto un riferimento allo scandalo della pedofilia che era appena scoppiato in America. A rileggere oggi quel passaggio (che ho evidenziato), mi accorgo che non ci sono voluti cinquecento anni per renderci conto della condizione critica della Chiesa odierna. Ma mi viene da fare anche qualche altra considerazione, che rimando alla fine della rievocazione storica (se avrete la pazienza di arrivare fino in fondo). La conferenza si svolse nel monastero di San Giovanni Evangelista, nel comune di San Felice a Cancello (Caserta) il 9 maggio 2002.


A parte qualche illustre eccezione, spesso si ha l’impressione che ciascuno abbia i suoi santi: le città e le nazioni, i loro; le chiese particolari, i loro; gli ordini religiosi, i loro. Sono pochi i santi veramente universali. Ai nostri giorni si potrebbe dire che, di santo di tutti, ce ne sia uno solo: Padre Pio. Lascia davvero sbalorditi come la sua fama e la sua devozione si stia diffondendo in ogni parte del mondo e presso ogni categoria di fedeli. Ma, per il resto, il culto di santi, anche recentemente beatificati o canonizzati, ha una diffusione circoscritta ad alcuni luoghi o fra determinati gruppi. Soprattutto quando si tratta di fondatori di ordini religiosi, si ha l’idea che essi appartengano esclusivamente all’istituto da loro fondato; che solo i loro figli spirituali debbano conoscerli e venerarli. Si arriva all’assurdo che spesso le stesse chiese locali, da cui quei santi provengono, anziché essere fiere di aver espresso simili figure, spesso le trascurano, delegando in maniera pressoché esclusiva gli istituti da loro fondati a custodirne e coltivarne la memoria.

Ci dimentichiamo però che, quando la Chiesa riconosce ufficialmente la santità di uno dei suoi figli, non lo fa certo per accontentare le rivendicazioni di qualche lobby di potere o per assecondare le ambizioni di qualche consorteria; lo fa esclusivamente per proporlo all’imitazione di tutti i cristiani. Afferma in proposito il Catechismo della Chiesa cattolica: «Canonizzando alcuni fedeli, ossia proclamando solennemente che tali fedeli hanno praticato in modo eroico le virtú e sono vissuti nella fedeltà alla grazia di Dio, la Chiesa riconosce la potenza dello Spirito di santità che è in lei e sostiene la speranza dei fedeli offrendo loro i santi quali modelli e intercessori. “I santi e le sante sono sempre stati sorgente e origine di rinnovamento nei momenti piú difficili della storia della Chiesa” (Christifideles laici, n. 16). Infatti, “la santità è la sorgente segreta e la misura infallibile della sua attività apostolica e del suo slancio missionario” (ibid., n. 17)» (n. 828).

I santi perciò — tutti i santi — sono santi di tutti, sono santi della Chiesa. Chiaramente, se i santi sono modelli, lo sono in particolare per coloro che, nella Chiesa, svolgono il medesimo servizio che quelli hanno svolto: un sacerdote santo — diocesano o religioso, non importa — è un esempio per tutti i sacerdoti. Lo è, in particolare, Antonio Maria Zaccaria, presbitero cremonese vissuto cinquecento anni fa.

Il Catechismo, citando l’esortazione apostolica Christifideles laici (che, a sua volta, riprendeva la relazione finale della seconda assemblea straordinaria del Sinodo dei vescovi del 1985), ci ha ricordato che «i santi e le sante sono sempre stati sorgente e origine di rinnovamento (fons et origo renovationis) nei momenti piú difficili della storia della Chiesa». In effetti, se andiamo a fare un’indagine storica sui santi canonizzati, ci accorgiamo che proprio le epoche piú critiche nella storia della Chiesa sono state quelle che hanno espresso il maggior numero di santi. Naturalmente, non è casuale che ciò avvenga. Come in un organismo si producono gli anticorpi, quando esso viene attaccato da agenti patogeni, cosí nella Chiesa Dio suscita i santi quando essa è afflitta da mali che potrebbero metterne a rischio la sopravvivenza. Lo Zaccaria non solo era cosciente di questo, ma andava anche oltre. Perfettamente consapevole della profonda crisi che attanagliava la Chiesa e la società del suo tempo, scriveva: «Ci si potrebbe chiedere il motivo per cui Dio permetta che rovinino i buoni costumi … Scruti bene ciascuno nel libro della somma Provvidenza, e vedrà almeno questo: che Dio dispone in diversi anfratti e travagliosi tempi di coronare diversi capitani» (Costituzioni XVIII). Antonio Maria arriva al punto di dire che Dio permette le crisi della Chiesa per incoronare dei santi. Dunque, non sono i santi a essere suscitati per riformare Chiesa, ma è la Chiesa che va in crisi perché siano suscitati dei santi!

Fra le epoche piú critiche della storia della Chiesa va certamente annoverato il XVI secolo. Non che prima le cose andassero meglio; ma certo, nel Cinquecento, quella crisi che si trascinava da lungo tempo esplode in maniera devastante.

Ai danni provocati alla Chiesa dal feudalesimo — a cui aveva cercato di porre rimedio la riforma gregoriana dell’XI secolo — si erano poi aggiunte le conseguenze rovinose della cattività avignonese (1309-1377) e del successivo scisma d’Occidente (1378-1449). Le “piaghe”, che col passare dei secoli si erano venute incancrenendo nel corpo ecclesiale, erano soprattutto l’ignoranza e l’immoralità del clero; il rilassamento degli ordini religiosi; la carriera ecclesiastica spesso intrapresa non per vocazione, ma per interesse, o personale (desiderio di ricchezza, di prestigio, di potere) o familiare (l’esigenza di non disperdere il patrimonio); il cumulo dei benefici e la conseguente dissociazione di questi dai rispettivi uffici, che indusse molti titolari a non risiedere nella propria sede; la vita mondana degli ecclesiastici, che spesso furono uomini di corte piú che pastori d’anime; l’intreccio fra autorità spirituale e potere temporale, che portò papi, vescovi-principi e abati ad avere preoccupazioni piú politiche che religiose; il nepotismo dei sommi pontefici e il fiscalismo vorace della Curia romana, che alienarono al papato le simpatie di vasti settori della cristianità; le interferenze del potere politico, che limitavano fortemente la libertà della Chiesa; la crisi della teologia e lo scadimento della predicazione, che provocarono un impoverimento della pietà popolare, sempre piú in preda alla superstizione. Lo stesso Rinascimento, anziché porre rimedio, aggravò la situazione, accentuando la secolarizzazione delle gerarchie ecclesiastiche e favorendo la paganizzazione della società.

In una situazione cosí drammatica si erano già manifestati numerosi fermenti di riforma. Già nel Tre-Quattrocento alcune figure avevano lavorato per il rinnovamento della Chiesa: alcune lo avevano fatto rompendo con essa — si pensi all’inglese John Wycliffe (1330-1384) e al boemo Jan Hus (1369-1415) —; altre lo avevano fatto rimanendo all’interno della Chiesa: basti citare Santa Caterina da Siena (1347-1380), San Vincenzo Ferrer (1350-1419), San Bernardino da Siena (1380-1444), San Giovanni da Capestrano (1386-1456).

Nel Cinquecento si ripete qualcosa di analogo: anche nel XVI secolo vengono intrapresi due diversi tentativi di riforma della Chiesa: uno in polemica con la Chiesa istituzionale (la Riforma protestante) e l’altro che rimane fedele a essa (la cosiddetta Riforma cattolica). La prima non solo non raggiunge l’obiettivo prefisso, ma anzi aggrava la crisi esistente: a tutti i problemi già presenti ne aggiunge di piú gravi, come l’eresia e la disintegrazione della comunione ecclesiale. Da parte sua la Riforma cattolica — solo di recente messa in luce da una piú attenta storiografia e da non confondersi con la successiva Controriforma — promuove dall’interno l’autentico rinnovamento della Chiesa.

Aspetti rilevanti della Riforma cattolica vanno considerati l’Umanesimo cristiano, con la sua esigenza di ritorno alle fonti bibliche e patristiche del cristianesimo; il fenomeno delle Osservanze, che manifesta il bisogno della vita religiosa di tornare al proprio primitivo rigore; il cosiddetto movimento oratoriano, espressione di una insospettabile vitalità ecclesiale (molto simile agli attuali movimenti); la fondazione dei nuovi ordini religiosi dei chierici regolari, che si propongono la riforma del clero e, attraverso questa, la riforma della Chiesa e della società.

All’interno di tale contesto di crisi e di vitalità ecclesiale si situa anche la figura di Sant’Antonio Maria Zaccaria. Nato a Cremona nel 1502 (cinquecento anni fa!), intraprende in un primo momento la carriera medica. Dopo essersi laureato in medicina all’Università di Padova, però, decide di darsi a vita spirituale. E inizia, ancora laico, la sua opera di catechesi e di testimonianza cristiana. Spinto dal proprio direttore spirituale, si orienta verso il sacerdozio e, nel 1529, riceve l’ordinazione, continuando, nella nuova veste, la sua azione evangelizzatrice e caritativa. Si affida alla guida spirituale di un domenicano riformatore, collega del Savonarola, fra Battista da Crema, il quale gli fa conoscere la contessa Ludovica Torelli di Guastalla, di cui diviene presto cappellano. Questo composito terzetto, accomunato da un ardente desiderio di riforma, si trasferisce nella capitale del Ducato, Milano. Qui entra in contatto con uno di quei cenacoli di riforma di cui si diceva: l’Oratorio dell’Eterna Sapienza. Nascono cosí nuove amicizie; si stringono nuovi legami spirituali; il gruppo si allarga. Si concepisce un progetto ardito: la formazione di una nuova compagine ecclesiale, formata da sacerdoti, religiose e laici coniugati, tutta dedita alla santificazione personale e alla riforma della Chiesa e della società. Il modello a cui si guarda, e sotto la cui protezione si pone il nuovo movimento, è l’apostolo Paolo, considerato non tanto come teologo della giustificazione mediante la fede (come, piú o meno contemporaneamente, faceva Lutero), ma piuttosto come apostolo ed evangelizzatore. Nel 1533 il papa approva il ramo maschile, quelli che successivamente sarebbero stati chiamati “Chierici regolari di San Paolo” o, piú brevemente, dal nome della loro prima chiesa, “Barnabiti”. Nel 1535 poi viene approvato il monastero femminile: alle religiose si dà il nome di “Angeliche di San Paolo”. Caratteristica delle Angeliche: non sono soggette alla clausura, perché devono partecipare al lavoro apostolico dei confratelli. Accanto a loro, come dicevamo, tutta una serie di laici, per lo piú di rango elevato, che condividono il medesimo progetto e collaborano alla sua realizzazione.

Inizia subito l’opera di rievangelizzazione di Milano. Si usano dei mezzi spesso provocatori, che destano la reazione del potere — ecclesiastico e laico — costituito. Molto significativamente Angelo Montonati ha intitolato la nuovo biografia dello Zaccaria, pubblicata quest’anno, Fuoco nella città. Sí, perché proprio di questo si tratta: riportare un po’ di fuoco nella vita della Milano di quel tempo.

Antonio Maria, da buon medico, fa una diagnosi attenta dei mali che affliggono la Chiesa e la società del suo tempo. Il risultato di tale diagnosi non è la lunga lista di “piaghe” che abbiamo elencato poc’anzi. Il suo referto individua un’unica malattia: la tiepidezza. Obiettivo suo e dei suoi discepoli è una lotta senza quartiere contro una vita cristiana mediocre. Scrive alle Angeliche: le mie figlie devono essere «apostole per rimuovere non solo la idolatria e altri difettoni grossi dalle anime, ma per distruggere questa pestifera e maggior nemica di Cristo crocifisso, la quale sí grande regna ai tempi moderni: madonna — dico — tepidità» (Lettera V). Tale lettera risale al 1537; con essa il Santo annuncia la prima missione fuori Milano: i paolini sono stati chiamati dal vescovo di Vicenza a compiere un’opera di riforma, soprattutto dei monasteri, di quella città. Di lí, successivamente, i paolini si sarebbero allargati al resto della Repubblica di Venezia, conquistando l’adesione di larghi strati dell’intellighenzia veneta (questo alla lunga avrebbe provocato la reazione dell’establishment politico della Serenissima, che, nel 1551, decreterà l’espulsione dei paolini dai domini della Repubblica).

Lo Zaccaria, nel frattempo, continua la sua opera a Milano. Nel 1539 si reca a Guastalla, per riportare la pace in quella contea in preda a lotte intestine. È già ammalato: gli strapazzi e il clima della Bassa padana aggravano le sue condizioni di salute. In giugno sente venir meno le forze e chiede di tornare a Cremona, nella casa natale. Circondato dalla mamma e dai suoi piú fedeli discepoli, confortato dall’apparizione dell’apostolo Paolo, fa le sue ultime raccomandazioni ai presenti, riceve i sacramenti e spira nel primo pomeriggio del 5 luglio 1539, secondo la sua predizione, nell’ottava degli apostoli Pietro e Paolo. Aveva 37 anni.

Come si vede, una vita molto breve e senza fatti straordinari: né esperienze mistiche singolari, né miracoli strepitosi, né realizzazione di opere esterne che rimanessero nei secoli futuri. Solo una preoccupazione: estirpare la tiepidezza, appiccare il fuoco del fervore. Rivolgendosi ai suoi figli scriveva: «[Accontentate] il desiderio del nostro divin padre [= San Paolo], il quale … voleva che fossimo piante e colonne della rinnovazione del fervor cristiano» (Lettera VII). La frase del vangelo, che egli cita nei suoi scritti in riferimento a Cristo (Sermone IV), può tranquillamente essere applicata a lui stesso: «Sono venuto a portare il fuoco sulla terra; e come vorrei che fosse già acceso!» (Lc 12:49).

Il segreto di Antonio Maria? La santità. È questa la risposta che lui dà alle sfide del suo tempo: la santità personale come presupposto e la santità dei cristiani come obiettivo dell’azione pastorale. Afferma l’esortazione apostolica Christifideles laici, citata dal Catechismo della Chiesa cattolica: «La santità … è la sorgente segreta e la misura infallibile della sua [= della Chiesa] attività apostolica e del suo slancio missionario» (ChL 17; CCC 828). Ciò che il papa ci raccomanda nella lettera apostolica Novo millennio ineunte, a proposito della santità, era stato già intuito e attuato da Sant’Antonio Maria Zaccaria cinquecento anni fa: la vocazione universale alla santità, la santità come urgenza pastorale e alla base della programmazione pastorale, la contraddittorietà di una vita cristiana mediocre, il coraggio di riproporre una “misura alta” della vita cristiana ordinaria, la necessità di una pedagogia della santità. Sono tutti aspetti che ritroviamo, con diverse sfumature, nella spiritualità zaccariana.

Ciò che colpisce maggiormente, al di là della ruvidezza di certe espressioni (una ruvidezza che forse, piú che dalla diversità dei tempi, dipende dalla parrhesía evangelica che caratterizza i santi di tutti i tempi) è la modernità del linguaggio zaccariano. Basti un esempio: «Gli uomini moderni sembrano fatti apposta per allontanare l’uomo da Dio» (Lettera III). Potrebbe essere tranquillamente l’affermazione di un’analista cattolico dei nostri giorni; mentre si tratta di una constatazione fatta dallo Zaccaria cinquecento anni fa.

Ma ciò che meraviglia, oltre la modernità del linguaggio, è l’attualità delle intuizioni che ebbe questo Santo del Cinquecento. Si pensi, per esempio, alla valorizzazione della donna e del laicato e al loro coinvolgimento nell’opera di evangelizzazione. Un’intuizione che allora non fu capita: la Chiesa tridentina, comprensibilmente preoccupata della propria sopravvivenza, guardò con sospetto a tutto ciò che non rientrava negli schemi di un’organizzazione clericale della vita ecclesiale. Fu cosí che, nel 1552, le Angeliche furono costrette alla clausura e i Coniugati di San Paolo semplicemente scomparvero.

Oggi certe intuizioni, premature per quell’epoca, sono diventate patrimonio comune: il Concilio ha espressamente ricordato ai cristiani l’universale vocazione alla santità; la donna sta progressivamente trovando spazio nella Chiesa; i laici sono ormai diventati collaboratori indispensabili nell’attività pastorale. Missione compiuta, dunque? Sant’Antonio Maria Zaccaria non ha piú nulla da dire alla Chiesa di oggi? Se dovessimo pensare una cosa del genere, significherebbe che la nostra analisi della situazione attuale è molto superficiale. Significherebbe confondere i progetti, sapientemente elaborati, con la realtà vissuta. Significherebbe credere che viviamo nel migliore dei mondi possibili o, se volete, nella migliore delle Chiese possibili. Significherebbe pensare che il rinnovamento della Chiesa promosso dal Concilio si esaurisca in una riforma strutturale ormai portata a termine e quindi non bisognosa di ulteriori interventi. Significherebbe chiudere gli occhi sulla realtà che ci circonda, tutt’altro che tranquillizzante. Significherebbe che, mentre, chiusi nelle sagrestie, ci compiacciamo dei risultati raggiunti, non ci accorgiamo che nel frattempo la società si sta sempre piú allontanando da Dio e dalla Chiesa.

Un tempo, il nostro, molto simile a quello in cui visse lo Zaccaria. Certo, i paragoni fra epoche storiche cosí distanti fra loro sono sempre rischiosi; ma è indubbio che esistano delle analogie fra la società cinquecentesca e la situazione attuale. Certamente non ritroviamo oggi gran parte delle “piaghe” della Chiesa di allora, ma ne ritroviamo altre, non meno pericolose. Per fare solo un esempio, volutamente provocatorio: noi ci scandalizziamo dell’immoralità del clero di allora; che cosa scriveranno di noi gli storici fra cinquecento anni, quando dovranno riferire dei molti preti che hanno abbandonato il sacerdozio per sposarsi, dell’omosessualità diffusa nei seminari e nei conventi, dello scandalo della pedofilia che ha occupato le prime pagine dei giornali in questi giorni? Siamo poi tanto migliori dei nostri confratelli di cinquecento anni fa?

Io credo che, se Antonio Maria vivesse oggi, senza stracciarsi le vesti, senza fustigare i costumi corrotti, senza fare il moralista alla Savonarola, individuerebbe senza esitazione il virus che, oggi come allora, colpisce la Chiesa: la tiepidezza. E, altrettanto prontamente, indicherebbe il rimedio: la santità.

Innanzi tutto, la santità intesa come stile di vita di chi, nella Chiesa, è chiamato a esercitare un ruolo di guida nei confronti dei suoi fratelli. Dice lo Zaccaria, rivolgendosi al “riformatore dei buoni costumi”, colui che avrebbe dovuto assumersi il compito di rinnovare la vita religiosa: «Bisogna che tu sia di cuore e animo grandi … Bisogna che, nella tua impresa, tu sia perseverante … Bisogna che tu sia di grandemente bassa umiltà … Bisogna che tu sia, per la molta meditazione e orazione, sempre sospeso … Bisogna che tu sia di grandemente buona e diritta intenzione … Bisogna che tu ti proponga di passare piú avanti e in cose piú perfette … Bisogna che sempre tu confidi nell’aiuto divino … le cose divine non siano trattate se non dai divini. Perciò il riformatore deve essere divino e santo» (Costituzioni XVIII).

In secondo luogo, la santità come ideale di vita coraggiosamente proposto ai fratelli. Scrive lo Zaccaria nella sua lettera-testamento, indirizzata a una coppia di sposi pochi giorni prima di morire: «Non pensate che l’amore che nutro per voi, né che le doti che possedete possano far sí che io desideri che siate santi piccoli. Vorrei, e desidero, e voi siete in grado, se volete, a diventare gran santi, purché vogliate sviluppare e restituire piú belle quelle doti e grazie al Crocifisso, dal quale le avete ricevute» (Lettera XI).


Non vorrei apparire polemico, ma credo che molti oggi si illudano che sia sufficiente il carcere per fare pulizia nella Chiesa. Per chi non lo sapesse, è un’esperienza già fatta: nel passato, oltre a esistere le prigioni dell’Inquisizione, esisteva anche un carcere in ogni monastero e in ogni convento. Eppure tutto ciò non è stato sufficiente per evitare o eliminare la corruzione dalla Chiesa. Finché non ci convinceremo che la Chiesa la si riforma con la santità, perderemo il nostro tempo. Prima ci siamo illusi che bastasse convocare un concilio e procedere a una serie di riforme strutturali; ora, vista l’inefficacia dei rimedi adottati, ci affidiamo alla giustizia (canonica o civile). Pensiamo che basterà questo per riformare la Chiesa? I santi ci invitano a imboccare una strada diversa. Speriamo che, come per il passato, anche la profonda crisi che stiamo attraversando sia il segno che si sta approssimando per la Chiesa una nuova primavera di santità.

sabato 10 aprile 2010

Basta!

Capisco la situazione estremamente imbarazzante e la difficoltà di scegliere la exit strategy piú appropriata. Condivido l’ultima dichiarazione di Padre Lombardi, che «non crede necessario rispondere a ogni singolo documento preso fuori dal contesto a proposito di singole situazioni legali»; ma comprendo pure che sia stato poi necessario fornire chiarificazioni a proposito della lettera del 1985 del Card. Ratzinger riguardante padre Stephen Kiesle.

Arrivati a questo punto, però, direi che sia ora di darci un taglio. Non se ne può piú. Tanto, lo sappiamo: a questi signori non gliene importa nulla della pedofilia; a loro interessa solo attaccare la Chiesa e infangare il Papa. Se si dà loro corda, continueranno all’infinito. Grazie alle talpe, troveranno sempre qualche documento buono per dimostrare il coinvolgimento di Ratzinger. Che se poi quel documento non dimostra niente, ecchissenefrega! Tanto, non succede mica nulla.

Non si può stare al loro gioco; non si può prestare sempre il fianco. A un certo punto, meglio ignorarli. Avete notato come sono rimasti indispettiti quando hanno visto che il Papa non ha fatto alcun cenno alla pedofilia durante i riti della Settimana Santa? Ma come si permette il Papa di non rispettare l’agenda che gli era stata fissata? Sembrava la stessa reazione stizzita degli ebrei dopo la visita di Benedetto XVI alla Sinagoga di Roma: ma come? il Papa non ha fatto alcun cenno allo Stato di Israele? Chissà perché ormai il Papa non è piú libero neppure di dire quel che gli pare! Sono gli altri che decidono quale debba essere il contenuto dei suoi discorsi.

Basta! Bisogna venire fuori da questa spirale. Il Card. Ratzinger aveva scritto al Vescovo di Oakland di avere prudenza? Certo, aveva tutto il diritto di farlo; e non deve rendere conto a voi, cari signori della stampa internazionale (e a chi c’è dietro di voi). La Chiesa ci pensa da sé a far pulizia in casa propria, non ha bisogno del vostro aiuto; se proprio smaniate dalla voglia di far pulizia, avete l’imbarazzo della scelta: guardatevi intorno, e troverete tanti altri ambienti da moralizzare (a cominciare dalle vostre redazioni). Ricordatevi che in duemila anni non siamo riusciti noi preti a distruggere la Chiesa; volete riuscirci voi? Anzi, sappiate che finora tutti quelli che hanno provato ad accostarsi al Papa si sono scottati...

giovedì 8 aprile 2010

Continuità nella Chiesa

Ho letto con grande interesse l’articolo di Stefano Carusi “La riforma della Settimana Santa negli anni 1951-1956”, pubblicato sul blog Disputationes theologicae. Si tratta di uno studio documentatissimo che illustra gli interventi operati sui riti della Settimana Santa negli anni Cinquanta, durante il pontificato di Pio XII. Dalla lettura dell’articolo ho imparato molte cose che non sapevo; ma non è questo il motivo per cui ne parlo. Ci sono altre due ragioni che mi spingono a trattarne.

La prima è che questo studio dimostra che avevo torto quando, nel mio articolo Concilio e “spirito del Concilio” (pubblicato nel primo post di questo blog), affermavo che tali “primizie” preconciliari della riforma liturgica erano sostanzialmente condivise da tutti. Don Carusi dimostra che non è affatto vero: già allora apparve evidente agli osservatori piú attenti che si trattava di interventi alquanto discutibili.

Il secondo motivo è che questo articolo conferma quanto ho sempre sostenuto: che cioè il Concilio in generale e la riforma liturgica in particolare non spuntano come un fungo: essi sono preceduti da un lungo lavoro di preparazione e sono il risultato di tutta una serie di “movimenti”, che affondano le loro radici nell’Ottocento e vedono la loro piena fioritura nel corso del Novecento. Perché ritengo questa una osservazione importante? Perché essa dimostra che esiste continuità nella Chiesa.

Purtroppo, come ho già avuto modo di rilevare, l’“ermeneutica della discontinuità” non è diffusa solo fra i progressisti, che considerano il Vaticano II come un “nuovo inizio” nella storia della Chiesa, ma tocca anche quei gruppi tradizionalisti, che lo considerano come l’origine di tutti i mali della Chiesa e pensano che prima del Concilio tutto andasse bene. Di errori ne sono stati fatti prima del Concilio, durante il Concilio e dopo il Concilio (come pure sia prima sia durante sia dopo il Vaticano II sono state fatte molte cose buone).

Che già prima del Concilio fosse assai diffusa nella Chiesa una mentalità, diciamo cosí, razionalistica, è un dato di fatto; e il post di Disputationes theologicae lo dimostra. Che lo stesso Pio XII si sia lasciato prendere un po’ la mano da questa corrente, non è una novità. Non so se ricordate, ma un anno fa avevo messo in luce un altro aspetto piuttosto discutibile del pontificato di Papa Pacelli: la nuova traduzione del Salterio del 1945, respinta poi dal Concilio in favore di un ritorno alla Volgata, seppure emendata (vedi qui). Nel caso dei riti della Settimana Santa non saprei dire se la successiva riforma liturgica abbia posto rimedio ai difetti dell’Ordo del 1955-56 o non li abbia piuttosto aggravati (sarebbe necessario uno studio approfondito, che non possiamo fare qui); sta di fatto che già prima del Concilio si presero delle cantonate.

C’è però un aspetto positivo in tutta questa storia, che va opportunamente evidenziato. Pio XII non era quel reazionario che tanto i progressisti quanto i tradizionalisti solitamente ci dipingono; era estremamente aperto alle novità: tanto aperto che in qualche caso corse il rischio di approvare scelte che successivamente avrebbero mostrato tutti i loro limiti.

mercoledì 7 aprile 2010

A proposito della nuova strategia

Tutti gli osservatori hanno rilevato, negli ultimi giorni, un cambio di strategia, da parte della Santa Sede, di fronte all’assedio mediatico sui casi di pedofilia. Non tutti sono d’accordo sull’opportunità di gridare al complotto e preferiscono la politica della confutazione sistematica dei casi che vengono di volta in volta proposti. Non saprei: probabilmente c’è bisogno dell’una e dell’altra cosa (personalmente ho apprezzato molto l’intervento del Card. Sodano il giorno di Pasqua, che, al di là delle intenzioni, finisce per essere una lezione di stile per gli attuali responsabili della Segreteria di Stato).

Finora — diciamo la verità — c’erano state delle reazioni piuttosto imbarazzate, che lasciavano supporre che la Santa Sede avesse qualcosa da nascondere o che perlomeno si sentisse in colpa per aver mancato ai suoi doveri di vigilanza e di repressione degli abusi. Da quanto sta venendo fuori invece appare con chiarezza che la politica seguita dalla Congregazione per la dottrina della fede, specialmente dopo il 2001, è stata di estremo rigore. Il fatto che di buona parte (forse, della maggior parte) dei casi non si sia pubblicamente parlato, non significa che quei casi sono stati “insabbiati”, ma semplicemente che sono stati trattati con quella riservatezza che era — ed è — prevista dalle norme in vigore.

Ovviamente si è trattato di una gestione “interna”: la Chiesa ha un suo proprio ordinamento (l’ordinamento canonico), e ha il nativo diritto-dovere di trattare certe cause. Ma tale gestione interna non ha mai impedito o intralciato il corso della giustizia “esterna”. Certo, il Card. Ratzinger non ha mai denunciato alcun prete alla magistratura civile; ma perché avrebbe dovuto farlo? c’è forse qualche norma che glielo imponesse? Del resto non ce n’era neppure bisogno, giacché il piú delle volte le cause ecclesiastiche erano avviate quando già erano in corso i procedimenti civili.

Ma ormai, a quanto pare, anche la stampa si è resa conto del fatto che la giustizia civile non è mai stata ostacolata da quella canonica; per cui hanno cambiato tattica: hanno iniziato a intromettersi nella gestione ecclesiastica delle cause (rapporto fra diocesi e Santa Sede, svolgimento dei processi, sanzioni comminate, ecc.). E questo è un fatto gravissimo: si tratta di una intollerabile interferenza nella vita interna della Chiesa. A quanto mi risulta, il New York Times non è una corte di giustizia internazionale (e, anche se lo fosse, non avrebbe alcun titolo per ingerirsi nell’ordinamento canonico). Come si permettono di esprimere giudizi sull’operato della giustizia ecclesiastica? come si permettono di sindacare se quel prete è stato o non è stato ridotto allo stato laicale? come si permettono di pretendere che un Vescovo venga rimosso o, addirittura, che il Papa dia le dimissioni?

Un’ultima osservazione: quel che sta accadendo dovrebbe dimostrare quanto fosse saggia l’imposizione del segreto a questo tipo di cause: il “segreto del Sant’Uffizio” (sotto pena di scomunica) nell’istruzione Crimen sollicitationis del 1962 e il “segreto pontificio” nella lettera Ad exsequendam del 2001. Un segreto che non solo garantiva le vittime e gli imputati (non sempre necessariamente colpevoli), ma che anche impediva lo scempio che si sta facendo in questi giorni. Il segreto non ha mai impedito, ma semmai ha permesso il regolare svolgimento dei processi (canonici e civili) lontano dai riflettori. Non credo che ci si debba sentire imbarazzati perché nelle norme ecclesiastiche era — ed è — prevista una totale riservatezza. Vediamo i danni incalcolabili che la violazione del segreto sta portando alla Chiesa. E di questa violazione, ahimè, prima che il New York Times, sono responsabili quegli ecclesiastici che hanno fornito al New York Times certi documenti riservati. Non sarebbe il caso che contro tali ecclesiastici si applicassero le sanzioni previste dal diritto?

martedì 6 aprile 2010

"Ermeneutica della riforma"

Articolo da me pubblicato sul n. 1/2010 dell'Eco dei Barnabiti (pp. 12-13). I lettori del blog hanno familiarità con certe problematiche. L'articolo vuole essere un tentativo di rendere partecipi delle medesime tematiche i semplici fedeli.


Iniziamo con questo articolo una nuova rubrica dell’Eco: l’“Osservatorio ecclesiale”. Il Grande Dizionario dell’uso di Tullio de Mauro dà, di “osservatorio”, la seguente definizione: «Luogo o edificio opportunamente collocato e dotato delle necessarie attrezzature per l’osservazione scientifica di eventi naturali»; e, per estensione, «Istituzione che ha il compito di rilevare l’andamento di fenomeni economici e sociali». Dunque, se ho ben compreso le intenzioni della direzione dell’Eco, compito della nuova rubrica dovrebbe essere quello di rilevare l’andamento dei fenomeni ecclesiali.

Ce n’è bisogno? Beh, penso proprio di sì; perché certe volte, pur partecipando attivamente alla vita della Chiesa, non ci accorgiamo appieno di quel che sta accadendo intorno a noi e continuiamo a ragionare e a giudicare la realtà con gli schemi che potevano andar bene venti anni fa, ma che non sono più adatti a comprendere la situazione presente. Ricordo che una trentina di anni or sono — eravamo agli inizi del pontificato di Giovanni Paolo II — io, che ero stato un grande ammiratore di Paolo VI, un giorno espressi qualche perplessità a proposito degli orientamenti del nuovo Papa. Ebbene, Mons. Andrea Erba, che era ancora un semplice sacerdote, mi disse: «Ricorda che la Chiesa va avanti». Lì per lì, quella risposta non mi convinse del tutto; ma ora, a distanza di anni, devo dire che aveva pienamente ragione: la Chiesa, sotto la guida dello Spirito, continua il suo cammino; sarebbe miope non accorgersi dell’evoluzione che avviene in essa, come del resto nella società e in qualsiasi altra realtà.

Ho l’impressione che stia accadendo qualcosa di simile anche ai nostri giorni. Sono ormai cinque anni che è stato eletto Benedetto XVI, ma si direbbe che qualcuno non se ne sia ancora accorto. Ci sono molti che continuano a “pensare” la Chiesa come se ci fosse ancora Papa Wojtyla, e continuano a fare antipatici confronti fra i due Papi e a giudicare l’attuale Pontefice sul modello del suo predecessore. Ma dimenticano una verità molto semplice: che Giovanni Paolo II è morto, e che alla guida della Chiesa c’è oggi Benedetto XVI. Si potrà essere più o meno d’accordo con le decisioni del regnante Pontefice, ma non si può ignorare il segno che i suoi interventi stanno lasciando nella Chiesa. Se è vero che ciascuno (e quindi anche il Papa) è figlio del proprio tempo; è altrettanto vero che ciascuno (e, a maggior ragione, il Papa) dà un contributo all’epoca in cui si trova a vivere e operare.

Compito di questa rubrica non è quello di esprimere giudizi di valore, positivi o negativi che siano; trattandosi di un “osservatorio”, essa dovrà limitarsi a osservare la realtà. Ciascuno poi, per suo conto, potrà, se vorrà, procedere alle proprie personali valutazioni; ma, perché ciò possa avvenire, è necessario prima prendere coscienza di ciò che si sta muovendo intorno a noi.

Fatta questa premessa, potremmo chiederci quali siano le direttrici, gli orientamenti di fondo dell’attuale pontificato: è esattamente la domanda a cui cercheremo di dare una risposta con gli articoli della nuova rubrica durante l’anno. Essendo questo il primo numero dell’Eco del 2010, ci chiederemo se esista una chiave di lettura, un criterio unificante che ci permetta di “leggere” il pontificato di Benedetto XVI.

Non sarà un caso (per un credente nulla può essere considerato fortuito, ma tutto rientra in un preciso disegno divino) che il Card. Joseph Ratzinger sia stato eletto Papa nel 2005, quarantesimo anniversario della conclusione del Vaticano II. Ebbene, una delle prime problematiche affrontate dal nuovo Pontefice è stata proprio l’interpretazione da dare al Concilio. Lo fece nel memorabile discorso alla Curia Romana del 22 dicembre 2005 (otto mesi dopo la sua elezione). In quell’occasione Benedetto XVI pose questa domanda: «Perché la recezione del Concilio, in grandi parti della Chiesa, finora si è svolta in modo così difficile?». Domanda a cui diede la seguente risposta:

«Tutto dipende dalla giusta interpretazione del Concilio o — come diremmo oggi — dalla sua giusta ermeneutica, dalla giusta chiave di lettura e di applicazione. I problemi della recezione sono nati dal fatto che due ermeneutiche contrarie si sono trovate a confronto e hanno litigato tra loro. L’una ha causato confusione, l’altra, silenziosamente ma sempre più visibilmente, ha portato frutti. Da una parte esiste un’interpretazione che vorrei chiamare “ermeneutica della discontinuità e della rottura”; essa non di rado si è potuta avvalere della simpatia dei mass-media, e anche di una parte della teologia moderna. Dall’altra parte c’è l’“ermeneutica della riforma”, del rinnovamento nella continuità dell’unico soggetto-Chiesa, che il Signore ci ha donato; è un soggetto che cresce nel tempo e si sviluppa, rimanendo però sempre lo stesso, unico soggetto del Popolo di Dio in cammino».

E proseguiva illustrando i tratti essenziali delle due contrapposte “ermeneutiche” e i diversi frutti della loro applicazione. Non possiamo ora noi ripercorrere tutta l’argomentazione di Papa Ratzinger; ciascuno, per proprio conto, potrà leggersi nella sua interezza il discorso nei tradizionali repertori di documentazione ecclesiale (ce n’è uno ormai alla portata di tutti: il sito web della Santa Sede www.vatican.va). Per il momento ci accontenteremo di rilevare solo alcuni punti:

1. Il discorso del 22 dicembre 2005, pur essendo formalmente un’allocuzione per la presentazione degli auguri natalizi, trattandosi del primo grande discorso del pontificato, assume un valore che potremmo definire “programmatico”.

2. Il problema della corretta interpretazione del Concilio, a quarant’anni dalla sua conclusione, riveste un’importanza fondamentale in questo momento critico nella vita della Chiesa. Non è più possibile continuare a ripetere i soliti stereotipi; occorre assumere un atteggiamento critico, non per mettere in discussione il Concilio, ma per chiedersi che cosa esso ha detto veramente, se il suo messaggio è stato compreso correttamente, se i suoi insegnamenti sono stati realmente attuati e quali ne sono stati i risultati.

3. Benedetto XVI, nel pieno esercizio delle sue funzioni magisteriali, come autentico interprete del Vaticano II, ce ne indica la corretta chiave di lettura: la cosiddetta “ermeneutica della riforma”, da lui spiegata come ermeneutica “del rinnovamento nella continuità dell’unico soggetto-Chiesa”. D’ora in poi, i testi del Vaticano II non potranno più essere interpretati alla luce di un fantomatico “spirito del Concilio” (di cui non si conoscono con precisione i tratti e non si sa bene chi siano i custodi), ma alla luce della ininterrotta tradizione della Chiesa. Non perché in tale tradizione non sia possibile alcuno sviluppo, ma perché il rinnovamento va effettuato nella continuità della Chiesa, che rimane la stessa prima e dopo il Concilio.

4. Personalmente ritengo di trovare in questa “ermeneutica della continuità” la chiave di lettura non solo del Concilio, ma dello stesso pontificato di Benedetto XVI. Le sue decisioni, i suoi gesti possono essere capiti solo in questa luce. Molti dipingono Papa Ratzinger come un Pontefice tradizionalista, nostalgico e restauratore; questo perché continuano ad applicare a lui gli usurati schemi ideologici che dividono sbrigativamente gli uomini fra progressisti e conservatori. Ma, così facendo, rischiano di non capire nulla della “politica” di Benedetto XVI. Se invece ci sforziamo di leggere i suoi molteplici interventi alla luce del criterio della “ermeneutica della riforma”, ecco che tutto acquisterà un senso. Papa Ratzinger non vuole riportare indietro le lancette della storia; vuole semplicemente che la Chiesa si rinnovi rimanendo sé stessa.

lunedì 5 aprile 2010

Gli auguri di Padre Musallam

Nei giorni scorsi ho ricevuto questa lettera da Padre Manuel Musallam, già parroco di Gaza e attualmente Presidente della Sezione cristiana della Commissione Relazioni internazionali “FATEH”, Membro della “Commissione islamico-cristiana di sostegno a Gerusalemmee ai Luoghi Santi” e Direttore della sede di quest'ultima a Birzeit. Non mi sono sentito di tenerla solo per me e perciò ho provveduto a tradurla e a condividerla con voi.


«Grazia a voi e pace da Dio Padre nostro e dal Signore Gesú Cristo, che ha dato se stesso per i nostri peccati al fine di strapparci da questo mondo malvagio, secondo la volontà di Dio e Padre nostro, al quale sia gloria nei secoli dei secoli. Amen» (Gal 1:3-5).

La Pasqua si rivolge ai cristiani di tutto il mondo con un messaggio di speranza e di gioia, con l’eccezione di quelli della Terra Santa. Noi, cristiani di Palestina, siamo sotto occupazione da molti anni. Soffriamo con amarezza la separazione dai luoghi santi. Ci è negato il diritto di rendere culto a Gerusalemme. Diverse generazioni di cristiani non hanno mai potuto raggiungere Gerusalemme per visitare i luoghi santi.

L’occupazione ha sempre imposto ostacoli illegali. Quest’anno dobbiamo fare i conti con il muro di separazione dell’apartheid israeliana, con i controlli e i posti di blocco dei soldati israeliani che impediscono qualsiasi movimento e accesso a Gerusalemme. Tutte queste misure non solo soffocano il popolo palestinese, ma asfissiano anche la pace in Israele e Palestina.

Quest’anno tutte le Chiese celebrano insieme la grande solennità di Pasqua. Ma i cristiani non possono andare a Gerusalemme. Il detto “una terra senza popolo per un popolo senza terra” si riferisce in maniera soffocante e pericolosa alla nostra attuale situazione. Non significa che Gerusalemme è senza popolo, ma piuttosto che dovrebbe essere evacuata per essere data a un altro popolo senza Gerusalemme o senza terra. David Ben Gurion stesso lo aveva espresso senza esitazione nel 1937 dichiarando: «Dobbiamo espellere gli arabi e prendere le loro terre».

Ogni pietra del muro dell’apartheid, ogni colpo di piccone sotto la Moschea di Al-Aqsa, ogni casa distrutta da Israele intensificherà la resistenza e il risentimento. Mentre ogni cooperazione con i palestinesi darà a Israele la speranza per un futuro dominato da serenità e pace.

Quest’anno Gerusalemme assiste ai piú feroci attacchi sionisti per renderla giudaica, alterare le sue caratteristiche, espellere il suo popolo, distruggere le sue case, confiscare la sua terra, oltre a costruire numerosi insediamenti.

Noi piangiamo Gerusalemme; ci mancano le sue belle cerimonie. Quest’anno inoltre migliaia di turisti piangeranno con noi. Essi non potranno percorrere la Via crucis con i palestinesi. Non ci sarà folclore palestinese da scoprire o artigianato religioso arabo da portare con sé come souvenir, né preghiere locali, inni o musica da godere nella calda fede dei credenti di Palestina. Essi resteranno scioccati quando, entrando nel Santo Sepolcro, vi troveranno dentro la polizia israeliana. Troveranno facce di tutti i colori ma non la carnagione palestinese. Non riconosceranno nel volto della gente la fisionomia di Gesú, che nacque, visse e morí qui come palestinese.

Mentre si avvicina la Pasqua che nel mondo simbolizza la “liberazione dal peccato e dalla schiavitù”, la nostra speranza per la liberazione nazionale si sta perdendo all’orizzonte. La schiavitù e l’umiliazione dell’occupazione opprimono i cristiani palestinesi della Terra Santa. Non vediamo alcun orizzonte politico, la fine dell’occupazione, la speranza di ritorno per i profughi palestinesi, la possibilità di erezione di un nostro stato con Gerusalemme capitale, il diritto all’autodeterminazione, la liberazione di migliaia di prigionieri, la libertà di accesso e di movimento, la fine dell’assedio di Gaza, e la distruzione del muro dell’apartheid intorno a Gerusalemme. Siamo inoltre agitati dalla continua minaccia di nuove guerre. Siamo stremati dalle quotidiane umiliazioni, dalla fame, dalla sete, dalla disoccupazione e dall’assenza di uno sviluppo sostenibile nel nostro paese.

Siamo sconcertati per il totale silenzio del mondo. La comunità internazionale è incapace di dare attuazione alle stesse risoluzioni legali che furono manipolate ingiustamente e illegalmente per creare lo Stato di Israele. Tutti gli eventi accaduti prima, durante e dopo la guerra suscitano una grande paura nei nostri animi. La vita è davvero cambiata, ma verso l’abisso del peggio.

È da 5000 anni che costruiamo e accresciamo Gerusalemme, e non abbiamo mai smesso di farlo, eccetto durante l’occupazione che ha praticamente distrutto ciò che avevamo realizzato. Nel tentativo di cercare il proprio retaggio storico, l’occupazione ha costruito degli ibridi tutti per sé, annettendo deliberatamente alcuni dei nostri luoghi santi, dal momento che non riusciva a trovare tracce del suo patrimonio.

Gerusalemme era la città di Dio, della pace, della preghiera, ma si è trasformata nella città dell’uomo, della guerra e dell’odio. Invece di diventare la chiave delle porte del cielo, è diventata la chiave della guerra e del sangue. Invece di essere una possibile miniera di perdono, amnistia e riconciliazione, è stata resa un posto di diaspora, odio e ostilità. Gerusalemme, il luogo piú santo della terra, è divenuta il centro del peccato e del crimine, perché uno uccide l’altro, insultandolo e calpestando la sua dignità e il suo diritto a vivere. E dove l’uomo non ha dignità e non c’è rispetto per il diritto alla vita, la redenzione che abbiamo ricevuto da Gesú Cristo è entrata di nuovo nell’ora del male e nel potere delle tenebre (Lc 22:53). E l’ingiustizia sta soffocando di nuovo la verità (Rm 1:18) e la vittoria è stata inghiottita nella morte (cf 1 Cor 15:54).

Tuttavia la nostra fede ci spinge a superare la morte per vivere nello splendore della pace, in attesa della nostra gloriosa resurrezione nazionale, quando la nostra morte e umiliazione si trasformerà in vittoria sull’occupazione. Attendiamo l’ora quando «una nazione non alzerà piú la spada contro un’altra nazione, non impareranno piú l’arte della guerra» (Is 2:4) e la pace di Cristo regnerà nei nostri cuori, perché ad essa siamo stati chiamati in un solo corpo (cf Col 3:15), cristiani, musulmani ed ebrei.

Gerusalemme è nostra. Non è una terra contesa. Noi non chiediamo di condividere il lascito e l’eredità di Gerusalemme con Israele o con chicchessia. Non accettiamo il discorso dei leader israeliani secondo cui Gerusalemme è la capitale di Israele e costruire in essa è come costruire a Tel Aviv. Non accettiamo la pubblicazione distribuita dagli israeliani questa settimana in cui si cita la Torah, secondo la quale la terra è stata loro data con l’ordine di evacuarla dal suo popolo per renderla semplicemente ed esclusivamente uno stato ebraico.

La religione ebraica era una via verso la religione cristiana e tutte le profezie facevano riferimento a Gesú Cristo. «Ora è appunto ad Abramo e alla sua discendenza che furono fatte le promesse. Non dice la Scrittura: “E ai discendenti”, come se si trattasse di molti, ma: E alla tua discendenza, come a uno solo, cioè Cristo» (Gal 3:16). «Se appartenete a Cristo, allora siete discendenza di Abramo, eredi secondo la promessa» (Gal 3:29).

L’occupazione è un peccato e una forma di terrorismo; e quando ci si appoggia sui testi della Torah per uccidere un uomo o espellerlo e rimuoverlo dalla sua terra, essa assurge al livello di crimine contro l’umanità. Tutti i colpevoli dovrebbero essere giudicati da un tribunale criminale internazionale, prima di essere giudicati dal giusto tribunale di Dio. I sostenitori di questo discorso biblico e quelli che non lo condannano dànno a Israele il tempo e il pretesto di intensificare ulteriormente i suoi crimini contro il popolo palestinese. Perciò essi diventano complici di un “peccato contro le nazioni”, la cui punizione è in questo mondo.

Il nostro appello al mondo per Pasqua è un invito profetico. Noi siamo realmente preoccupati per il numero di palestinesi che rendono culto in questi luoghi santi per rivivere e glorificare Cristo e la sua parola, rendendo testimonianza alla sua morte e risurrezione. Ma ancora di piú temiamo che questi luoghi santi diventino monumenti storici o addirittura siano distrutti. Agli occhi dei leader israeliani questi luoghi sono considerati “luoghi pagani”, e chiunque li distrugge si avvicina a Dio. Molto tempo fa il leader sionista Teodoro Herzl disse: «Se un giorno entreremo in possesso di Gerusalemme e io sarò ancora in grado di fare alcunché, quando faremo questo, la mia prima azione sarà di purificarla a fondo. Io rimuoverò ogni cosa che non è santa e brucerò i monumenti anche vecchi di secoli».

Israele ci ha devastato e torturato nelle sue molte guerre. Noi vi chiediamo di considerare le ferite del popolo palestinese innocente e di aver compassione dell’olocausto palestinese, di cui siete testimoni con i vostri occhi, che toccate con le vostre mani, e conoscete quelli che hanno perpetrato questo crimine contro i nostri figli. Cercate con noi la giustizia che è madre della pace e sua incubatrice. Proteggeteci e difendete i nostri luoghi santi.

«Chiedete pace per Gerusalemme: vivano sicuri quelli che ti amano;
sia pace nelle tue mura, sicurezza nei tuoi palazzi.
Per i miei fratelli e i miei amici io dirò: “Su te sia pace!”.
Per la casa del Signore nostro Dio, chiederò per te il bene» (Sal 122:6-9).

Gesú è risorto e il mio popolo risorgerà.

Buona Pasqua.

Don Manuel Musallam

Birzeit, 20 marzo 2010

sabato 3 aprile 2010

Sabato Santo


«Lo piangeranno come si piange il primogenito» (Zc 12:10)


BUONA PASQUA A TUTTI!