mercoledì 29 settembre 2010

La nuova traduzione della CEI

Col passare del tempo, si riesce a conoscere meglio la nuova traduzione CEI della Bibbia (2008) e quindi ad apprezzarne i pregi e a scoprirne i difetti.

Domenica scorsa, per esempio, nella parabola del ricco “epulone”, ho notato con piacere lo sforzo di tradurre piú letteralmente la frase «ma erano i cani che venivano a leccare le sue piaghe» (Lc 16:21), nonostante che tale traduzione renda piú difficile la comprensione del testo rispetto al precedente «perfino i cani venivano a leccare le sue piaghe». Non ho capito invece perché si sia abbandonata la vecchia traduzione letterale «fu portato dagli angeli nel seno di Abramo» (16:22), per sostituirla con «fu portato dagli angeli accanto ad Abramo». Se il criterio è quello della fedeltà al testo originale, si poteva conservare la vecchia traduzione. Capisco che già precedentemente era stata usata la traduzione piú libera nel versetto successivo (16:23), creando in tal modo una disomogeneità; ma per lo meno in uno dei due passi era stata conservata l’espressione originale, che ora invece è scomparsa del tutto. Il problema è che, con queste traduzioni “a senso” si rischia di non cogliere i riferimenti ad altri passi dove viene usata la medesima espressione: si parla di “seno” infatti anche in Gv 1:18 (il Figlio unigenito che «è nel seno del Padre») e in Gv 13:23 (il discepolo che Gesú amava «era coricato sul seno di Gesú»).

Un’altra tendenza che trovo nella nuova traduzione, e che non condivido, è quella di preferire all’interpretazione tradizionale (solitamente basata sulla versione greca dei LXX), la traduzione dal testo masoretico, quasi che questo si identifichi col testo originale della Bibbia, mentre si tratta di una codificazione avvenuta solo in epoca cristiana (al contrario della LXX, che già esisteva al tempo di Gesú). Due esempi tratti dai salmi.

L’inizio del Sal 64 (65). La precedente traduzione suonava: «A te si deve lode, o Dio, in Sion» (in latino: «Te decet hymnus, Deus, in Sion»). Ora leggiamo: «Per te il silenzio è lode, o Dio, in Sion»). Non nego che si tratti di una traduzione suggestiva, ma che si fonda esclusivamente sulla lettura masoretica della parola ebraica dmyyh. I masoreti (che aggiunsero le vocali al testo ebraico puramente consonantico) lessero dummiyyah (= “silenzio”), mentre i LXX (precedenti — ripeto — rispetto ai masoreti) lessero dommiyyah (= “conviene”, “si addice”). Le antiche versioni latine tradussero il greco prepei con decet. Era proprio il caso di abbandonare una tradizione cosí antica per adottare la incertissima e discutibilissima lettura masoretica?

Un altro esempio tratto dalla liturgia odierna dei Santi Arcangeli: molti testi liturgici attingono al Sal 137 (138): «A te voglio cantare davanti agli angeli» (in latino: «In conspectu angelorum psallam tibi»). Che cosa troviamo nella nuova traduzione? «Non agli dèi, ma a te voglio cantare». Degli angeli non c’è piú traccia. È vero che nel testo ebraico troviamo ’elohim, che significa appunto “dèi”; ma i LXX avevano tradotto quell’espressione con “angeli”. Avranno avuto i loro motivi. Perché, anche in questo caso, si è preferita un’apparente fedeltà al testo ebraico, abbandonando l’interpretazione tradizionale, non solo cristiana, ma degli ebrei stessi?

I traduttori si difendono mettendo avanti l’autorità di San Girolamo. Questi infatti nel primo caso (Sal 64:2) traduce: «Tibi silens laus, Deus, in Sion»; nel secondo (Sal 137:1): «In conspectu deorum cantabo tibi». È vero; ma si dimentica che la Chiesa non ha mai adottato per la sua preghiera il Salterio “iuxta Hebraeos” di San Girolamo, accontentandosi della sua revisione del Salterio “iuxta Septuaginta” (detto anche “Salterio gallicano”). Anzi, direi che tutti i salteri tradotti sul testo ebraico non hanno mai avuto grande fortuna nella Chiesa: basti pensare al salterio commissionato da Pio XII all’Istituto Biblico negli anni Quaranta e che fu utilizzato solo per un breve periodo nella liturgia (nonostante tale traduzione fosse stata condotta sul testo ebraico, nei due casi accennati conservava il testo latino tradizionale).

Anche la Neovolgata, che pure ha corretto in molti punti il testo del “Salterio gallicano” (senza con ciò adottare il Salterio ieronimiano “iuxta Hebraeos”), nei due casi presi in esame è rimasta, essa pure, fedele alla traduzione tradizionale: «Te decet hymnus, Deus, in Sion»; «In conspectu angelorum psallam tibi». Ora, chiedo: ma l’istruzione Liturgiam authenticam (28 marzo 2001) non aveva stabilito che le traduzioni per l’uso liturgico (quale è la nuova versione della CEI), pur condotte sui “testi originali” avrebbero dovuto avere come punto di riferimento la Neovolgata (nn. 34-45)? Come mai è stata concessa alla nuova versione CEI la recognitio, nonostante non sia stato rispettato tale criterio?

lunedì 27 settembre 2010

Vetus et Novus Ordo

Il problema della liturgia continua ad appassionare. Lo dimostra la lettera che il Signor Stefano Fiorito mi ha inviato, dopo il mio secondo post sul motu proprio Summorum Pontificum. Essa non contiene argomenti totalmente nuovi (se ne è già parlato in altre occasioni su questo blog); ma, dato che si tratta di questioni di estrema importanza, forse non è male tornarci sopra, per chiarirci le idee.


«Senza voler sollevare alcuna polemica, e per amore di verità, bisogna ammettere certi problemi per poterli risolvere. Il problema del Novus Ordo, ahinoi, non riguarda solo la discontinuità “esteriore”. Nel NOM vi sono elementi evidenti di discontinuità con il VOM. E, tra l’altro, la discontinuità esteriore, lei giustamente fa notare, non è un criterio “univoco” ma una forma di creatività che potrebbe essere evitata. “Potrebbe”, “dovrebbe”. Padre, vede quanti condizionali? Questa discontinuità, questa creatività, se c’è, è un arbitrio o è una legittima “opzione” consentita? Perché sa bene che la cosa cambia molto nell’uno e nell’altro caso. Padre, qui non stiamo facendo i “lefebvriani”, ma stiamo seguendo la linea critica di molti Santi Sacerdoti niente affatto scomunicati come Mons. N. Bux, Mons. Pozzo, il Card. Cañizares, lo stesso Mons. Burke, Mons. B. Gherardini, ed altri. Piú o meno “autorevoli”. E parliamo anche dello stesso Card. Ratzinger. Egli stesso ha detto chiaro e tondo che il NOM è “un nuovo edificio”, sebbene costruito con i “pezzi” dell’antico. E questo genera confusione. E se chiede, da Papa, chiaramente, che il VOM “fecondi” il NOM, un problema di discontinuità NEL MESSALE nuovo evidentemente c’è. È chiaro che l’auspicio è che questa discontinuità sparisca, con i mezzi che il Papa sta adottando. Del resto la “riforma della riforma”, che timidamente prende corpo, almeno nella “ars celebrandi” del Pontefice e in piccoli passi compiuti, ha delle ragioni proprio in questa “discontinuità”. Altrimenti non ci sarebbe alcun bisogno di questi elementi di continuità che, non dimentichiamolo, oggi non sono affatto “permessi” sempre e comunque. Ad esempio l’amministrazione della Santa Comunione adottata dal Papa, che è quella tradizionale, non è affatto “ovvia” e “comune”. L’indulto, dato da Paolo VI per “gestire” solo alcune realtà ribelli, è stato fatto diventare norma universale! Rovesciandolo! Per cui la situazione, Padre, non è cosí “lineare”. Se si dovessero applicare solo le norme esistenti, non ci sarebbe da fare nulla, oggi. E non ci sarebbero problemi da risolvere. Sarebbero già risolti. Poiché la “maggioranza” OPTA per la creatività (permessa), senza per questo andare contro alle norme vigenti (a meno di evidenti pagliacciate come a volte alcuni organi di informazione cattolica, dolorosamente, evidenziano. Ma io mi chiedo, queste pagliacciate hanno una qualche “base” sui cui prendono spunto?)! Per cui, dove sarebbe il problema? Il problema sta proprio nella SCELTA. Perché si deve poter “scegliere” nella Liturgia, che non è dell’uomo, ma di DIO PER L'UOMO? A meno di cose non sostanziali, la Liturgia dovrebbe essere immutabile. O no?

E cose “sostanziali”, nel NOM, sono state toccate. Nel NOM emerge prepotente l’aspetto conviviale e assembleare della Messa, che in realtà è solo una conseguenza di quello sacrificale e preminente che le è proprio. Cosí dice il Catechismo, cosí insegna la Tradizione Apostolica (e Lei Padre), cosí dice Gesú Cristo! La Messa è il Sacrifico incruento della Croce. L’aspetto conviviale, enfatizzato, rischia di oscurare la realtà fondante della Messa! Nel NOM, l’eliminazione di molti Salmi, e di molti gesti sacri, ha “semplificato” un rito che in realtà dovrebbe girare tutto intorno al suo fondamento: la Croce. L’eliminazione del doppio Confiteor, e l’eliminazione della intercessione dei Santi nello stesso, non dà certo una continuità evidente con la tradizione. E non favorisce certo la distinzione non solo formale ma ONTOLOGICA tra sacerdozio comune e ordinato. Come del resto l’abolizione dell’Offertorio non favorisce la natura sacrificale della Messa. Come del resto l’opzionalità del Canone (peraltro modificato), e l’affiancamento di altri canoni decisamente piú generici, in cui si parla anche di “Santa Cena”, e la deformazione della famosa “anafora di Ippolito” che nel NOM è presente solo parzialmente ed è poi largamente interpolata, non favorisce per nulla la continuità e il risalto del fondamento sacrificale della Messa. 

Tutto questo sebbene, per grazia di Dio, non intacchi la piena validità della Messa, ne intacca la chiara continuità con la tradizione e la valenza sacrificale. Che non è piú chiara. Ciò che è chiaro è il valore conviviale e assembleare della Messa. Si è dunque rovesciato ciò che dovrebbe essere. Se da un lato il rito è stato “arricchito”, bisogna vedere in che direzione sia questo “arricchimento”. Se dall’altro è stato semplificato, bisogna vedere in che direzione. Non si può essere contrari all’arricchimento o alla semplificazione (del resto questo è stato fatto sempre!), ma si può essere contrari a COSA si vada ad arricchire ed a COSA si vada a semplificare. Se la semplificazione intacca alla sostanza, i dubbi si possono anche avere. Non crede?

Quindi io penso, con il Papa, che “... Del resto le due forme dell’uso del Rito Romano possono arricchirsi a vicenda: nel Messale antico potranno e dovranno essere inseriti nuovi santi e alcuni dei nuovi prefazi. Nella celebrazione della Messa secondo il Messale di Paolo VI potrà manifestarsi, in maniera piú forte di quanto non lo è spesso finora, quella sacralità che attrae molti all’antico uso. La garanzia piú sicura che il Messale di Paolo VI possa unire le comunità parrocchiali e venga da loro amato consiste nel celebrare con grande riverenza in conformità alle prescrizioni”.

Lei sa bene che la sacralità è fondata sulla Croce. La celebrazione “riverente” da ciò che dal contenuto emerge. Il Papa cerca di spostare l’opzionalità attuale dalla creatività alla “permessa” continuità. E chissà, magari poi fare un passo avanti rendendo la creatività “fuori legge”. Le prescrizioni, infatti, PERMETTONO la celebrazione in continuità, ma non obbligano a questa. Cosí come il contenuto del NOM non identifica NETTAMENTE la continuità».


Il Signor Fiorito tocca diverse questioni. Per esigenze di chiarezza, cercherò di affrontarle in maniera ordinata.

1. Cominciamo dal problema della creatività. Io stesso, nel mio ultimo post, ammettevo che «forse si è dato troppo spazio alla “creatività”»; ma se vogliamo riflettere su questo problema in maniera seria, cerchiamo di non stravolgerne i termini. Innanzi tutto, stiamo attenti all’uso di tale termine, estremamente ambiguo. Per quanto ne so, i libri liturgici non parlano mai di “creatività”, ma solo di “adattamenti” (che è cosa ben diversa). E tali adattamenti spettano, in primo luogo ai Vescovi e alle Conferenze episcopali. Il sacerdote può, sí, adattare alcuni testi (praticamente le sole “monizioni”), ma entro limiti ben precisi, indicati dal n. 31 dell’Institutio generalis, 3ª ed. (a tale proposito, può essere interessante confrontare questo numero con il n. 11 della 2ª ed.). Se poi andiamo a leggere le rubriche, ci accorgeremo che non sono poi cosí numerosi i luoghi in cui si usano le espressioni “pro opportunitate” (p. es., a proposito dello scambio di pace) o “his vel similibus verbis” (appunto nel caso delle monizioni). Anzi, mi sembra che ci siano delle possibilità che non vengono mai sfruttate e che invece, secondo me, contribuirebbero a creare un’atmosfera di sacralità (si leggano con attenzione, per esempio, le rubriche dell’offertorio). Che poi si possano vedere, in alcune chiese, delle “pagliacciate”, siamo d’accordo; ma, per favore, non chiamiamole “creatività”: si tratta di puri e semplici abusi. Mentre non si può pensare di escludere qualsiasi tipo di adattamento: il Rito romano non è come il Rito ambrosiano, limitato a una sola diocesi; esso è diffuso in tutto il mondo, fra popoli e culture profondamente diversi; è inevitabile che si permettano alcuni adattamenti.

2. Passiamo ora alla continuità. Dicevo la volta scorsa che «la continuità non si pone tanto nelle forme esteriori (che possono variare), quanto nella sostanza delle cose». Tale affermazione si fonda su un insegnamento tradizionale della Chiesa: «[Sacrosanta oecumenica et generalis Tridentina Synodus] declarat hanc potestatem perpetuo in Ecclesia fuisse, ut in sacramentorum dispensatione, salva illorum substantia, ea statueret vel mutaret, quae suscipientium utilitati seu ipsorum sacramentorum venerationi, pro rerum, temporum et locorum varietate, magis expedire iudicaret» (Concilio di Trento, Sessione XXI, Dottrina sulla comunione sotto le due specie, c. 2: Denzinger-Schönmetzer, n. 1728). Dunque, se la sostanza rimane la stessa, c’è continuità (anche se cambia la “parte cerimoniale”); la discontinuità interviene quando cambia la “sostanza” (= materia e forma dei sacramenti). Sul fatto che la “parte essenziale” della celebrazione eucaristica sia rimasta identica, penso che tutti possiamo trovarci d’accordo (ché altrimenti non saremmo piú in comunione con la Chiesa cattolica). Sono d’accordo che la continuità, in un determinato rito, oltre che nella sostanza, debba anche manifestarsi nelle forme esteriori; ma personalmente ritengo che anche questa seconda continuità sia stata sostanzialmente salvaguardata con la riforma liturgica. I cambiamenti che sono stati introdotti sono solo un “adattamento alle nuove condizioni”, per altro richiesto espressamente dal Concilio Vaticano II (si leggano, per cogliere la mens di tale adattamento, i nn. 10-15 del proemio della Institutio generalis). Il Signor Fiorito fa alcuni esempi:

— l’aspetto conviviale, che avrebbe oscurato il valore sacrificale della Messa. Che nel Novus Ordo sia stato rivalutato anche l’aspetto conviviale della Messa, non c’è dubbio; ma questo non significa che ciò sia avvenuto a scapito dell’aspetto sacrificale (naturalmente qui si sta parlando dell’Ordo Missae, non delle chiacchiere di questo o quel prete). Non basta accusare il Messale di Paolo VI di aver trasformato il Sacrificio eucaristico in una “santa cena”; bisogna dimostrarlo. È vero che nella 2ª ed. del Messale italiano è stata introdotta una preghiera eucaristica, la quinta, dove si parla di “santa cena”; ma, come giustamente lamentò il Card. Biffi, si era trattato di un “blitz” dei liturgisti, avvenuto all’insaputa dei Vescovi. Attualmente quella preghiera eucaristica è stata accolta anche nella 3ª ed. del Messale latino, ma totalmente rifusa. L’aver rivalutato l’aspetto conviviale della Messa ha ridato equilibrio alla celebrazione, che, per polemica col protestantesimo, aveva enfatizzato esclusivamente l’aspetto sacrificale;

— la semplificazione, che avrebbe toccato elementi qualificanti del rito: la semplificazione dei riti introduttivi avrebbe offuscato la distinzione fra il sacerdozio ministeriale e quello comune dei fedeli; la semplificazione dei riti offertoriali avrebbe invece oscurato il valore sacrificale della Messa. Beh, non mi sembrano argomenti convincenti. Non penso che ci sia bisogno di due Confiteor per ribadire la distinzione fra sacerdozio ministeriale e sacerdozio comune: non è quello il momento. Anzi, l’atto penitenziale è il momento in cui tutti, sacerdote e fedeli, ci poniamo dinanzi a Dio col nostro peccato e ne chiediamo perdono. Scusatemi l’impertinenza, ma non sono proprio i tradizionalisti che lamentano, nel Novus Ordo, l’eccessiva centralità del celebrante e sostengono che tutti, sacerdote e fedeli, devono essere rivolti al Signore? Non devono forse esserlo nel momento della confessione dei peccati? Per quanto riguarda l’offertorio, è stato piú volte ribadito che il rito precedente era una sorta di anticipazione del sacrificio, assolutamente fuori luogo. Una semplificazione di tale rito non può che dare maggiore risalto all’offerta del sacrificio, che avviene con la preghiera eucaristica;

— l’arricchimento, che potrebbe, esso pure, intaccare la continuità. Sinceramente non riesco a vedere la difficoltà. Personalmente faccio fatica a comprendere come si possa, per esempio, criticare l’abbondanza di parola di Dio che ci viene offerta nella liturgia rinnovata. Potrei capire se fossero stati inseriti elementi estranei alla liturgia; ma se ogni giorno leggiamo una pagina diversa della Scrittura, che male c’è? Dovremmo essere piú che felici di poter ascoltare la parola di Dio. 

3. Visto che stiamo parlando di “arricchimento”, passiamo al problema del reciproco arricchimento fra i due Messali, auspicato dal Santo Padre nella sua lettera ai Vescovi. Alla mia osservazione, nel post del 16 settembre, che finora è stato ripetutamente e positivamente escluso, da parte della Commissione “Ecclesia Dei”, che si possa intervenire sul Messale del 1962, mi è stato fatto notare che il Papa, nella lettera ai Vescovi, limita l’influsso del Messale di Paolo VI su quello di Pio V all’introduzione di nuovi santi e di alcuni nuovi prefazi. Si evidenzia invece che è il Vetus Ordo che dovrebbe influire sul Novus; ma non si sottolinea che anche in questo caso il Papa dà una precisa indicazione sulla natura di tale influsso: «Nella celebrazione della Messa secondo il Messale di Paolo VI potrà manifestarsi, in maniera piú forte di quanto non lo è spesso finora, quella sacralità che attrae molti all’antico uso». Una ulteriore conferma che non dobbiamo aspettarci una “riforma della riforma” consistente in una modifica del rito della Messa; essa deve essere intesa semplicemente come un recupero della sacralità propria della liturgia. Tale sacralità non è monopolio dell’usus antiquior, ma è possibile (e dovrà tornare a essere la norma) anche nel Novus Ordo. Non a caso il Santo Padre aggiunge: «La garanzia piú sicura che il Messale di Paolo VI possa unire le comunità parrocchiali e venga da loro amato consiste nel celebrare con grande riverenza in conformità alle prescrizioni; ciò rende visibile la ricchezza spirituale e la profondità teologica di questo Messale».

Mi permetta ora il Signor Fiorito un’osservazione piú generale, che si riferisce a un atteggiamento piuttosto diffuso nel mondo tradizionalista. Non vuole essere un rimprovero, ma solo una forma di correzione fraterna. Mi sembra piú che legittimo apprezzare la forma straordinaria del Rito romano e rivendicare il diritto di celebrare liberamente la Messa secondo questo uso. Visto che tale diritto è stato riconosciuto dalla suprema autorità della Chiesa con il motu proprio Summorum Pontificum, mi sembrerebbe che, a parte le legittime proteste per eventuali illegittimi ostacoli posti all’esercizio di tale diritto, ci si dovrebbe mostrare soddisfatti e riconoscenti e vivere in piena comunione col resto della Chiesa, che segue la forma ordinaria. E invece no: invece di godersi in santa pace la Messa tradizionale, si continua a polemizzare contro il Novus Ordo. Potrei capire se ci si indignasse per gli abusi. No, si critica il Novus Ordo in quanto tale, trovando in esso chissà quali deficienze. Che il Novus Ordo possa non piacere, OK; ma che lo si continui a biasimare, quasi costituisse un nuovo rito piú o meno ereticheggiante (salvo poi ribadirne la validità), proprio non lo capisco. Possibile che non ci si renda conto che, cosí facendo, si va contro l’insegnamento del Santo Padre, che ha esplicitamente riaffermato la continuità fra l’antico e il nuovo rito? Se il Papa ci dice che «non c’è nessuna contraddizione tra l’una e l’altra edizione del Missale Romanum. Nella storia della Liturgia c’è crescita e progresso, ma nessuna rottura», perché non ci rimettiamo con semplicità al suo magistero? In che cosa consiste la nostra obbedienza e sottomissione, se poi ci opponiamo cosí apertamente al suo inequivocabile insegnamento?

giovedì 23 settembre 2010

Ancora sul motu proprio

Pensavo che il mio ultimo post fosse un post molto tranquillo, che avrebbe incontrato il consenso di tutti, dal momento che cercava di dare un po’ di ragione a tutti. E invece, a quanto pare, si trovano le differenze anche nelle sfumature, che, pur non toccando la sostanza, sono inevitabilmente presenti in qualsiasi discorso. Caterina mi fa notare:

«Mi riferisco al suo post, nel quale mons. Burke ne esce, mi creda, bastonato... forse e di certo non era nelle sue intenzioni, ma nello spiegare le tre ragioni che accomunano i tre interventi (Jesus, Augé e Burke), di fatto chi viene penalizzato è proprio mons. Burke... La sua ricostruzione, citando la Lettera e il MP Summorum Pontificum per giustificare le affermazioni di Jesus e Augé, sono correttissime, ma non altrettanto lei ha fatto per giustificare l’intervento di mons. Burke del quale si è premurato di sottolineare che “non è una voce ufficiale”, mentre non ha fatto lo stesso distinguo nel citare gli interventi di Jesus e Augé...».

Sono andato a rileggermi il post, e devo convenire che, effettivamente, si può avere questa impressione: mentre nei primi due casi si dà piena ragione agli autori, nel caso dell’intervento di Mons. Burke si fa la precisazione che non si tratta di una “interpretazione autentica” del motu proprio. Perché mi sono sentito in dovere di fare tale precisazione? Semplicemente perché c’era stato qualcuno che aveva interpretato l’intervento del Prefetto della Segnatura Apostolica proprio in questo senso; e non mi sembrava corretto. Poi però ho cercato di dare la mia interpretazione (naturalmente discutibile come tutte le interpretazioni non-autentiche): il Summorum Pontificum ha un valore universale nel senso che vuole inculcare il principio della continuità tra l’antica e la nuova Messa. Non mi sembra corretto invece vedere nel motu proprio un invito del Papa a celebrare ogni domenica in ogni parrocchia una Messa in forma straordinaria, come sostenuto da alcuni alti prelati della Curia Romana. Mi pare che si tratti di un’estensione indebita della mens del motu proprio. Se questa fosse realmente la volontà del Santo Padre, egli non avrebbe certo alcun imbarazzo a manifestarla espressamente. Da parte sua, il Signor Stefano Fiorito aggiunge:

«Mi consenta di dissentire sulla conclusione a cui giunge, riguardo al motivo della promulgazione del MP Summorum Pontificum. Ciò che lei fa notare nella sua disamina è sicuramente vero. Riguardo alla valenza del MP, il quale è un atto pontificio che è volto ANCHE alla soddisfazione delle richieste di alcuni gruppi tradizionalisti, alla risoluzione del “contenzioso” con la FSSPX. Cosí come la “mens” del Papa è sicuramente, come da Lui stesso specificato, quella di rendere evidente l’ermeneutica della continuità. Il mio dissenso riguarda il suo affermare la sostanziale “particolarità” del provvedimento, il quale non dovrebbe riguardare tutti, e soprattutto il fatto che sembra lei constati la “continuità” tra i due messali come già presente. Sa benissimo che cosí non è. Poiché se fosse stata presente ed evidente, non si sarebbe reso necessario il MP, e soprattutto tutto ciò che ad esso fa capo».

Credo che risulti chiaro, da quanto detto, che il motu proprio ha un valore particolare in quanto rivolto ad alcuni gruppi, dallo stesso Pontefice ben definiti; ha invece un valore universale nell’intento di inculcare il principio della continuità fra le due forme della Messa.

Posso trovarmi abbastanza d’accordo sul fatto che, forse, tale continuità è piú un auspicio che una realtà, almeno a stare a quel che vediamo nelle chiese. Va riconosciuto con molta serenità che certe celebrazioni sembrano fare di tutto per sottolineare la discontinuità con l’antico rito. Ma lo stesso discorso potrebbe farsi — e di fatto i lefebvriani lo fanno — piú in generale, a proposito dell’ermeneutica della continuità applicata al Concilio o alla Chiesa pre- e post-conciliare. Per quanto il Santo Padre continui a ripetere che il Concilio non ha dato vita a una nuova Chiesa, che la Chiesa pre-conciliare e quella post-conciliare sono la medesima Chiesa, non si può negare che ci siano alcune differenze, talvolta anche piuttosto marcate. 

Va detto che la continuità non si pone tanto nelle forme esteriori (che possono variare), quanto nella sostanza delle cose. Inoltre non dobbiamo tanto giudicare sulla base di ciò che fa Tizio, Caio o Sempronio (c’è sempre stato e ci sarà sempre chi fa di testa sua), ma in base alle decisioni ufficiali della Chiesa (anche queste ovviamente possono essere talvolta discutibili e perfettibili, ma ciò non giustifica il loro rifiuto). Infine, dobbiamo convincerci che molto dipende, piú che dalle riforme promosse dalla Chiesa, dal modo in cui esse vengono attuate da ciascuno di noi.

Ciò che ho detto in generale per la Chiesa vale anche in campo liturgico. La continuità fra la vecchia e la nuova liturgia non va giudicata sulla base di ciò che vediamo nelle nostre chiese, ma in base ai due messali. A questo proposito, il Signor Benedetto Serra mi chiede:

«A proposito del suo ultimo post, volevo chiederle che differenza c’è, in realtà, fra una Messa di Paolo VI in latino, con tutti gli accorgimenti consentiti (o non proibiti) per renderla piú vicina possibile a quella di S. Pio V (ad Orientem, comunione in ginocchio, etc.), e una messa di S. Pio V? Mi sembra di capire, dopo aver riflettuto sulle discussioni che ci sono state sul blog di P. Augé, che in realtà queste differenze non sono poi cosí grandi. La tesi del P. Augé è che in realtà la Messa di Paolo VI è piú ricca, contiene molti piú “tesori” della liturgia di quella antica, ne conserva tutti i testi e anzi li arricchisce e li amplia. Dà inoltre molta piú libertà di celebrare (nelle diverse lingue, leggendo ad alta voce i testi in modo che tutti sentano, etc.).  In poche parole, se uno vuole, può, mantenendo un’unica forma  del rito latino […], conservare praticamente tutto della Messa di S. Pio V».

Alla domanda del Signor Serra vorrei rispondere con una frase ripresa da una preziosissima lettera del Card. Ratzinger pubblicata da Padre Augé proprio in questi giorni:

«La differenza tra il Messale di 1962 e la Messa fedelmente celebrata secondo il Messale di Paolo VI è molto minore che la differenza fra le diverse applicazioni cosiddette “creative” del Messale di Paolo VI» (18 febbraio 1999). 

In effetti, a ben vedere, da un punto di vista rituale, le differenze sono minime: una semplificazione generale del rito (in particolare i riti di introduzione e quelli di offertorio); un arricchimento notevole delle letture e di altri testi (orazioni e prefazi); una molteplicità di preghiere eucaristiche. Sostanzialmente, mi trovo d’accordo sulla maggiore ricchezza della nuova liturgia: il Messale di Paolo VI non rappresenta una diminuzione, ma un accrescimento rispetto a quello di San Pio V. Se poi il modo in cui il nuovo rito è stato di fatto celebrato ha significato molto spesso un depauperamento, questo è un altro discorso: ciò non può essere addebitato al Messale, ma ai singoli celebranti.

Si dirà: questo è stato possibile perché il nuovo Messale, con le pressoché illimitate possibilità offerte, lo ha permesso. Posso essere d’accordo che forse si è dato troppo spazio alla “creatività”, ma è altrettanto vero che oggi non sarebbe possibile tornare a un fissità assoluta delle rubriche, senza alcuna possibilità di adattamento. Se, invece, si sfruttassero le possibilità di adattamento proprio in senso tradizionale, si potrebbero avere dei risultati che certamente non dispiacerebbero agli amanti della tradizione. Per averne un esempio, si vadano a vedere le foto della Messa di ringraziamento per la beatificazione di J. H. Newman proprio oggi pubblicate da Cantuale Antonianum. Non dico che tutti debbano fare cosí; ma, se uno lo vuol fare, lo può fare: nessuno glielo impedisce. Penso che in questa prospettiva, come dice Papa Ratzinger, la liberalizzazione della forma straordinaria del rito romano possa effettivamente giovare alla corretta celebrazione della sua forma ordinaria. Ma ciò non significa che si debba cancellare la riforma liturgica e tornare tutti all’antica liturgia. Se c’è stata una riforma liturgica, è perché ce n’era bisogno: se è vero che spesso si celebra sciattamente il Novus Ordo, è altrettanto vero che si può celebrare sciattamente anche il Vetus.

giovedì 16 settembre 2010

Tre anni di "Summorum Pontificum"

Ricorreva l’altro giorno il terzo anniversario dell’entrata in vigore delle norme emanate col motu proprio Summorum Pontificum del 7 luglio 2007. Negli ultimi tempi ci sono stati diversi interventi, divergenti fra loro, su una corretta interpretazione del suddetto motu proprio.

In agosto è stata diffusa la prefazione di Mons. Raymond Leo Burke a un commento al Summorum Pontificum scritto da Gero P. Weishaupt (Päpstliche Weichenstellungen. Das Motu Proprio Summorum Pontificum Papst Benedikts XVI. und der Begleitbrief an die Bischöfe. Ein kirchenrechtlicher Kommentar und Überlegungen zu einer “Reform der Reform”, Verlag für Kultur und Wissenschaft, 2010). Chi legge il tedesco può trovare il testo completo della prefazione sul sito Summorum Pontificum; gli altri dovranno accontentarsi di un breve resoconto in italiano sul quotidiano on line Petrus.

A parte la questione delle chierichette o dei ministri straordinari della comunione, quel che ora ci interessa è l’interpretazione che il Prefetto della Segnatura Apostolica dà del motu proprio: esso è un “atto di legislazione universale”, che “riguarda tutta la Chiesa in tutto il mondo”. Citiamo da Petrus:

«Non si tratta, quindi, di un “favore fatto a un qualsiasi individuo o gruppo”, ma di una legge finalizzata “alla salvaguardia e promozione della vita di tutto il corpo mistico di Cristo e alla massima espressione di questa vita, cioè la liturgia sacra”. Dunque, il motu proprio del Papa non va letto come una concessione o, peggio, un favore, fatto ai gruppi ultratradizionalisti come quello dei lefebvriani, ma anzi l’atto di governo con cui il Santo Padre si rivolge alla Chiesa nel suo complesso. L’intera comunità della Chiesa, sostiene il Prefetto della Segnatura Apostolica, ha “l’obbligo di preservare la tradizione liturgica e di mantenere la legittima celebrazione di entrambe le forme del rito romano”, quello precedente al Concilio Vaticano II e quello successivo allassise conciliare».

Nello stesso mese di agosto, il mensile dei Paolini Jesus ha dato un’interpretazione alquanto diversa del Summorum Pontificum, mettendo in rapporto il motu proprio con il movimento lefebvriano. In tal modo, Jesus sembrerebbe restringere la portata del documento, dandogli come unica finalità di tentare una riconciliazione con la FSSPX.

Giorni fa anche Padre Matias Augé nel suo blog è entrato nel dibattito, facendo notare che il motu proprio è stato emanato per venire incontro a quei fedeli che si sentono legati alla liturgia tradizionale e opponendosi all’interpretazione “massimalista” data dai gruppi tradizionalisti.

È ovvio che ciascuno cerchi di portare l’acqua al proprio mulino; ma chi è che ha ragione: Mons. Burke, Jesus o Padre Augé? Probabilmente un po’ di ragione ce l’hanno tutti e tre. Mi sono andato a rileggere sia il motu proprio, sia la lettera ai Vescovi che l’accompagnava, e mi sono accorto che tutte e tre le diverse posizioni trovano un fondamento in quanto scrive il Papa.

Ha perfettamente ragione Padre Augé a scrivere che il motu proprio è stato emanato per quei fedeli che si sentono legati alla liturgia tradizionale. Non se lo è inventato lui, ma è ciò che scrive Benedetto XVI nel Summorum Pontificum. Dopo aver fatto riferimento alle modifiche che furono apportate ai libri liturgici in seguito al Concilio Vaticano II, il Papa aggiunge:

«Ma in talune regioni non pochi fedeli aderirono e continuano ad aderire con tanto amore ed affetto alle antecedenti forme liturgiche, le quali avevano imbevuto cosí profondamente la loro cultura e il loro spirito, che il Sommo Pontefice Giovanni Paolo II, mosso dalla cura pastorale nei confronti di questi fedeli, nell’anno 1984 con lo speciale indulto “Quattuor abhinc annos”, emesso dalla Congregazione per il Culto Divino, concesse la facoltà di usare il Messale Romano edito dal Beato Giovanni XXIII nell’anno 1962; nell’anno 1988 poi Giovanni Paolo II di nuovo con la Lettera Apostolica “Ecclesia Dei”, data in forma di motu proprio, esortò i Vescovi ad usare largamente e generosamente tale facoltà in favore di tutti i fedeli che lo richiedessero. 

A seguito delle insistenti preghiere di questi fedeli, a lungo soppesate già dal Nostro Predecessore Giovanni Paolo II, e dopo aver ascoltato Noi stessi i Padri Cardinali nel Concistoro tenuto il 22 marzo 2006, avendo riflettuto approfonditamente su ogni aspetto della questione, dopo aver invocato lo Spirito Santo e contando sull’aiuto di Dio, con la presente Lettera Apostolica stabiliamo quanto segue…».

ll Summorum Pontificum dunque, pur differenziandosi profondamente dai precedenti interventi, si pone di fatto, per espressa indicazione di Benedetto XVI, sulla scia di quelli: esso vuole, con modalità diverse, venire incontro alle esigenze dei fedeli che “continuano ad aderire con tanto amore ed affetto alle antecedenti forme liturgiche”.

E dove ha tirato fuori Jesus la storia dei lefebvriani? Vi fa esplicito riferimento il Papa nella lettera inviata ai Vescovi contestualmente alla pubblicazione del Summorum Pontificum. A un certo punto il Santo Padre arriva addirittura al punto di dire che si tratta della “ragione positiva” che lo ha spinto a emanare il motu proprio:

«Sono giunto, cosí, a quella ragione positiva che mi ha motivato ad aggiornare mediante questo motu proprio quello del 1988. Si tratta di giungere ad una riconciliazione interna nel seno della Chiesa. Guardando al passato, alle divisioni che nel corso dei secoli hanno lacerato il Corpo di Cristo, si ha continuamente l’impressione che, in momenti critici in cui la divisione stava nascendo, non è stato fatto il sufficiente da parte dei responsabili della Chiesa per conservare o conquistare la riconciliazione e l’unità; si ha l’impressione che le omissioni nella Chiesa abbiano avuto una loro parte di colpa nel fatto che queste divisioni si siano potute consolidare. Questo sguardo al passato oggi ci impone un obbligo: fare tutti gli sforzi, affinché a tutti quelli che hanno veramente il desiderio dell’unità, sia reso possibile di restare in quest’unità o di ritrovarla nuovamente». 

D’accordo, per quanto non si possano identificare tout court i lefebvriani con i fedeli semplicemente legati alla liturgia tradizionale, si tratta pur sempre di gruppi che condividono la medesima sensibilità. Il problema nasce quando Mons. Burke afferma che il Summorum Pontificum non è una concessione fatta a individui o gruppi, ma un atto di legislazione universale che in qualche modo coinvolge tutta la Chiesa. Dove fonda il Prefetto della Segnatura Apostolica questa sua opinione? La questione è tanto piú urgente in quanto qualcuno ha voluto vedere nelle parole di Mons. Burke, a causa della posizione che ricopre nella Curia Romana, una sorta di “interpretazione autentica” del motu proprio

Beh, va precisato che al massimo si può parlare di una opinione autorevole, ma certo non di una interpretazione autentica, che non può venire dal Prefetto della Segnatura Apostolica, né, tanto meno, può essere affidata alla prefazione di un libro. In ogni caso, non si tratta di una opinione campata in aria. 

È ovvio che i documenti pontifici, a meno che non siano espressamente diretti a individui o gruppi determinati, sono rivolti all’intera Chiesa. Questo allora significa che tutti i sacerdoti e fedeli devono diventare “biritualisti” (o, se si preferisce, visto che non si tratta di due riti distinti, “biformalisti”)? Non direi proprio. Le due forme del rito romano, pur essendo poste in diretta continuità fra di loro, non sono messe sullo stesso piano. Non mi sembra un caso che il rito uscito dalla riforma liturgica postconciliare venga indicato nel motu proprio con l’espressione “forma ordinaria”, mentre al rito precedente si attribuisca la qualifica di “forma straordinaria”. Se il Novus Ordo è la “forma ordinaria”, significa che esso continua a essere il rito comune, normale, normativo — “ordinario” appunto — per tutti i fedeli. L’usus antiquior, del quale è stata riconosciuta la piena legittimità, rimarrà pur sempre la “forma straordinaria” del Rito romano destinata ad alcuni; per cui non si potrà pretendere che esso si diffonda su un piano di perfetta parità in tutta la Chiesa (tanto per intenderci, non si può pretendere che in tutte le parrocchie si debba adottare il criterio del fifty-fifty: se ci sono due messe, una deve essere nella forma ordinaria, l’altra nella forma straordinaria, come pure alcuni autorevoli personaggi sembrerebbero aver suggerito).

Ma allora quale era l’intenzione profonda di Benedetto XVI nel liberalizzare l’uso dei libri liturgici precedenti alla riforma postconciliare? Al di là della doverosa attenzione alle legittime esigenze di alcuni gruppi (i fedeli legati alla tradizione e, in particolare, i lefebvriani), ho l’impressione che ci sia una motivazione piú profonda, di carattere “ideologico” (in senso buono): voler riaffermare la continuità fra le due forme della liturgia romana. Papa Ratzinger lo ribadisce esplicitamente nella lettera ai Vescovi:

«Non c’è nessuna contraddizione tra l’una e l’altra edizione del Missale Romanum. Nella storia della Liturgia c’è crescita e progresso, ma nessuna rottura».

Non sentite, in queste parole, l’eco del discorso del Pontefice alla Curia Romana del 22 dicembre 2005? Mi sembra di vedere, nel motu proprio Summorum Pontificum, l’applicazione liturgica del principio dell’“ermeneutica della riforma” o “del rinnovamento nella continuità” da Benedetto XVI usato in riferimento al Concilio Vaticano II. Liberalizzando l’uso del Messale del 1962, il Papa ha voluto riaffermare che tra la Messa di San Pio V e quella di Paolo VI non esiste contraddizione; che esse costituiscono fondamentalmente la stessa Messa, la “Messa di sempre” (come oggi è diventato di moda, fra i gruppi tradizionalisti, definire la Messa tridentina, in contrapposizione alla Messa postconciliare). È ovvio che non si possa negare una certa diversità esteriore fra le due Messe (anche nel discorso del 2005 Papa Ratzinger non escludeva una certa discontinuità fra la Chiesa pre- e post-conciliare); ma ciò non toglie la continuità di fondo fra le due forme dello stesso Rito romano.

Si tratta di un punto qualificante del magistero di Benedetto XVI, una specie di “scommessa”, su cui egli sta giocando il suo pontificato. Il Papa vuole fare entrare questa convinzione tra i fedeli: che non esiste un “prima” e un “dopo” il Concilio; che il Vaticano II non costituisce una rottura, un “nuovo inizio”, ma semplicemente una tappa importante nel cammino della Chiesa, che rimane la stessa prima e dopo il Concilio. Ciò che vale per la Chiesa in generale, vale, in particolare, per la liturgia: la Messa che oggi celebriamo non è una “nuova Messa”, ma la “Messa di sempre”, che ha subito qualche adattamento (come del resto era già avvenuto infinite volte nel corso dei secoli).

Probabilmente, su un piano teorico, tutti si dichiareranno d’accordo col Papa. Ma a questa adesione astratta — dispiace dirlo — non sempre corrisponde un atteggiamento coerente. Alla faccia della continuità, c’è chi rifiuta la Messa tridentina come anticaglia del passato e chi rifiuta la Messa di Paolo VI come ereticheggiante. Ho l’impressione che, nonostante gli sforzi del Santo Padre, rimanga ancora raro quel sensus Ecclesiae, che va al di là degli atteggiamenti ideologici (questa volta, in senso negativo) di parte e ci fa amare la Chiesa cosí come essa realmente è e non come dovrebbe essere secondo i nostri schemi mentali.

Non che non rimangano ancora diversi (forse, molti) punti da chiarire (tanto per fare un esempio, la contraddizione fra quanto affermato dal Papa nel motu proprio a proposito di un “reciproco arricchimento” fra le due forme del Rito romano, e l’atteggiamento fin qui assunto della Commissione “Ecclesia Dei”, che esclude per principio qualsiasi intervento sul Messale del 1962). Ma ciò che importa è accogliere la “sfida” lanciata dal Santo Padre, che a tutti noi chiede di abbandonare le nostre certezze e di essere disponibili ad accettare le novità dello Spirito.

lunedì 13 settembre 2010

Due postille

Permettetemi di fare due postille al post di sabato scorso “L’esperienza della tradizione”.


1. Vi si parlava di “professione di fede”. Davo per scontato che fosse chiaro a che cosa mi riferissi, perché ne avevo trattato piú volte nel blog. Ma, a quanto pare, tale riferimento non era poi cosí ovvio. Giustamente, non posso pretendere che i miei lettori abbiano letto o anche semplicemente ricordino tutti i miei post.

La professione di fede a cui facevo riferimento è quella richiesta dal diritto ad alcune categorie di fedeli (can. 833). La «formula approvata dalla Sede Apostolica», di cui a quel canone, è la seguente (l’avevo già pubblicata nel post del 18 marzo 2009):


«Io N. N. credo e professo con ferma fede tutte e singole le verità che sono contenute nel Simbolo della fede, e cioè: 

Credo in un solo Dio, Padre onnipotente, creatore del cielo e della terra, di tutte le cose visibili e invisibili. Credo in un solo Signore, Gesú Cristo, unigenito Figlio di Dio, nato dal Padre prima di tutti i secoli: Dio da Dio, Luce da Luce, Dio vero da Dio vero, generato, non creato, della stessa sostanza del Padre; per mezzo di lui tutte le cose sono state create. Per noi uomini e per la nostra salvezza discese dal cielo, e per opera dello Spirito Santo si è incarnato nel seno della vergine Maria e si è fatto uomo. Fu crocifisso per noi sotto Ponzio Pilato, morí e fu sepolto. Il terzo giorno è risuscitato, secondo le Scritture, è salito al cielo, siede alla destra del Padre. E di nuovo verrà, nella gloria, per giudicare i vivi e i morti, e il suo regno non avrà fine. Credo nello Spirito Santo, che è Signore e dà la vita, e procede dal Padre e dal Figlio. Con il Padre e il Figlio è adorato e glorificato, e ha parlato per mezzo dei profeti. Credo la Chiesa, una santa cattolica e apostolica. Professo un solo battesimo per il perdono dei peccati. Aspetto la risurrezione dei morti e la vita del mondo che verrà. Amen.

Credo pure con ferma fede tutto ciò che è contenuto nella parola di Dio scritta o trasmessa e che la Chiesa, sia con giudizio solenne sia con magistero ordinario e universale, propone a credere come divinamente rivelato. 

Fermamente accolgo e ritengo anche tutte e singole le verità circa la dottrina che riguarda la fede o i costumi proposte dalla Chiesa in modo definitivo.

Aderisco inoltre con religioso ossequio della volontà e dell'intelletto agli insegnamenti che il Romano Pontefice o il collegio episcopale propongono quando esercitano il loro magistero autentico, sebbene non intendano proclamarli con atto definitivo».


Tale formula è stata pubblicata nel 1988. Se ne può trovare il testo ufficiale latino negli Acta Apostolicae Sedis, 81 (1989), pp. 104-106 (il volume può essere scaricato dal sito della Santa Sede). Il testo italiano, corredato da una nota di presentazione, può essere consultato ibidem.

L’emissione della suddetta professione di fede non ha alcunché di straordinario. Essa viene solitamente pronunciata nell’atto di assumere un ufficio da esercitare a nome della Chiesa (e in tal caso viene accompagnata dal “Giuramento di fedeltà”, che potete trovare subito dopo la professione di fede nei luoghi citati). Io stesso l’ho emessa piú d’una volta, quando sono diventato diacono e quando sono stato nominato superiore.

Si potrebbe obiettare che fra le categorie di persone elencate nel can. 833 non ci sono coloro che chiedono di entrare nella piena comunione con la Chiesa cattolica. Va notato che il Codice di diritto canonico non considera mai questo caso, al contrario di quanto fa, per comprensibili motivi, il Codice dei canoni delle Chiese orientali. E con questo veniamo alla seconda postilla.


2. Potrebbe sembrare che la mia proposta di richiedere ai lefebvriani l’emissione della professione di fede sia una idea peregrina. In realtà, si tratta della prassi prevista nei casi di ammissione alla piena comunione con la Chiesa cattolica. 

Il Concilio Vaticano II, nel suo decreto sull’ecumenismo Unitatis redintegratio, parlando delle Chiese orientali (che costituiscono la situazione piú somigliante a quella della FSSPX), afferma:

«Questo sacro Concilio inculca di nuovo ciò che è stato dichiarato dai precedenti sacri Concili e dai Romani Pontefici, che cioè, per ristabilire o conservare la comunione e l'unità bisogna “non imporre altro peso fuorché le cose necessarie” (At 15:28)».

Come accennato, il Codice dei canoni delle Chiese orientali dedica un intero titolo a “I battezzati acattolici che convengono alla piena comunione con la Chiesa cattolica” (cann. 896-901). Il can. 896 richiama l’insegnamento conciliare appena esposto. Il can. 897 poi esplicita quali sono le “cose necessarie” da imporre:

«Il fedele cristiano di qualche Chiesa orientale acattolica dev’essere accolto nella Chiesa cattolica con la sola professione di fede cattolica, premettendo una preparazione dottrinale e spirituale adeguata alla condizione di ciascuno».

Ora, mi chiedo: se agli ortodossi, che cattolici non sono, può essere chiesta solo la professione di fede, perché ai lefebvriani, che fino a prova contraria cattolici sono, deve essere chiesto di piú (accettazione del Concilio Vaticano II o del Catechismo della Chiesa cattolica)?

Il can. 897 CCEO parla di “professione di fede cattolica”, senza specificare di che cosa si tratti. Ne troviamo la formula nel “Rito dell’ammissione alla piena comunione della Chiesa cattolica di coloro che sono già stati validamente battezzati”, contenuto nell’appendice al Rito dell’iniziazione cristiana degli adulti. La rubrica al n. 15 afferma:

«[Dopo l’omelia] la persona che deve essere ammessa recita con i fedeli presenti il simbolo Niceno-Costantinopolitano, che viene sempre detto in questa Messa. Poi il candidato, invitato dal celebrante, aggiunge da solo queste parole:

Credo e professo tutte le verità
che la santa Chiesa cattolica crede, insegna
e annunzia come rivelate da Dio».

Non si vuole usare la professione di fede prescritta per chi assume un ufficio da esercitare in nome della Chiesa? OK, si usi la professione di fede prevista nel Rito di ammissione alla piena comunione con la Chiesa cattolica (che in tre righe dice magnificamente tutto ciò che va detto). Ma, per favore, non si chieda ai lefebvriani piú di quanto si chiede ai non-cattolici.

sabato 11 settembre 2010

L'esperienza della tradizione

Sono svariati mesi che non mi occupo della Fraternità sacerdotale di San Pio X. Dopo l’inizio dei “colloqui dottrinali” con la Santa Sede, nell’ottobre 2009, solo una volta ho interrotto il silenzio che mi ero imposto: in séguito alle parole pronunciate da Mons. Fellay il 2 febbraio 2010 a proposito degli stessi colloqui (si veda il mio post del 6 febbraio).

Nel post del 19 ottobre 2009 spiegavo i motivi che suggerivano il silenzio: non sarebbe stato corretto interferire in alcun modo sulla delicatissima “trattativa” in corso. Ciò non significava affatto che io “credessi” in quei colloqui. Quale fosse la mia posizione in proposito, lo avevo messo in chiaro nel post del 18 marzo 2009; ma, visto che le due parti erano convinte della loro utilità, mi auguravo di cuore che quei colloqui potessero essere coronati da successo.

A quanto pare, però, essi sono entrati in una fase di stallo (mi viene da aggiungere: e non poteva essere altrimenti). Forse per questo, durante l’estate si è diffusa la voce che il Papa stia pensando a un motu proprio, nel quale, per giungere a una piena riconciliazione, chiederebbe alla FSSPX esclusivamente di sottoscrivere il Catechismo della Chiesa cattolica (come è avvenuto recentemente con i gruppi anglicani che hanno chiesto di ristabilire la piena comunione con Roma). La notizia è stata accolta con soddisfazione da tutti i fedeli legati alla tradizione, ma ha destato anche le preoccupazioni dell’ala massimalista del movimento lefebvriano (si veda qui).

Personalmente, se effettivamente si giungesse a un accordo su queste basi, ne sarei ben felice; ma ho i miei dubbi che ciò possa avvenire. La reazione del Vescovo Williamson appare assai significativa; e sono convinto che la sua posizione sia condivisa dalla maggioranza della Fraternità. Ma il problema non sta solo nell’atteggiamento della FSSPX; dobbiamo considerare la cosa in sé stessa, oggettivamente: che cosa è giusto — meglio, necessario, indispensabile — chiedere ai lefebvriani per riammetterli alla piena comunione con la Chiesa cattolica?

Finalmente, se la notizia del motu proprio è vera, si è capito che non si può chiedere loro l’accettazione del Concilio Vaticano II, un concilio che si è autodefinito “pastorale” e che, in alcuni punti, può essere — e di fatto è — messo in discussione. Ora, forse sulla scia di quanto avvenuto con gli anglicani, si vorrebbe chiedere alla FSSPX l’accettazione del Catechismo della Chiesa cattolica. Potrebbe sembrare un’idea ragionevole, che era stata in qualche modo già ventilata un anno fa e che io stesso avevo condiviso (si veda il post del 19 ottobre 2009).

Ma, se ci pensiamo bene, anche questa soluzione — a prescindere dalle reazioni dell’altra parte, ma solo in linea di principio — non è la piú corretta. Non certo perché il Catechismo della Chiesa cattolica sia, come vuole Williamson, “sostanzialmente modernista, ma in maniera sommessa”; bensí perché i catechismi — tutti i catechismi — sono anch’essi testi “pastorali”, legati al tempo e al luogo in cui sono stati composti. Non a caso oggi non usiamo piú il Catechismo del Concilio di Trento, ma il Catechismo della Chiesa cattolica; non perché uno sia giusto e l’altro sbagliato, ma semplicemente perché il secondo è piú adatto all’epoca in cui viviamo. Che il CCC non sia un assoluto lo dimostra il fatto che, dal momento in cui è stato pubblicato (1992), esso è già stato modificato (nel 1997) a proposito della pena di morte (nn. 2266-2267). Un catechismo non contiene solo il dogma nella sua purezza, ma cerca di presentarlo adottando le categorie proprie di un determinato periodo storico. Perché obbligare qualcuno ad accettare come definitivo un testo che, pur nella sua autorevolezza, conserva un carattere contingente e quindi può essere fatto oggetto, almeno su alcuni punti, di legittime riserve (come di fatto è avvenuto a proposito della pena di morte)?

Io mi vado sempre piú convincendo che l’unica cosa che si possa — e si debba — chiedere ai lefebvriani (come a chiunque altro) è la professione di fede: se essi sono disposti a emetterla, sono cattolici; se si rifiutano, non lo sono. E a nulla varrebbero i colloqui dottrinali, anche se durassero per anni.

Che poi ci possano essere delle divergenze su alcuni punti, soprattutto riguardo al Concilio Vaticano II, mi sembra piú che legittimo. Dove sta scritto che tutti la dobbiamo pensare allo stesso modo a proposito della libertà religiosa, dell’ecumenismo o del dialogo inter-religioso? Si tratta forse di dogmi di fede? È proprio uno scandalo se qualcuno la pensa in maniera diversa? Non è piuttosto uno stimolo per approfondire le questioni? Ho l’impressione che talvolta si voglia allargare indebitamente il campo dell’ortodossia; pensare che, per essere cattolici, tutti dobbiamo avere la stessa opinione su tutto; che non ci sia spazio per un legittimo pluralismo. I dogmi di fede, tutto sommato, non sono poi cosí tanti: una volta che ci ritroviamo tutti nella professione della medesima fede, possiamo discutere sul resto, purché lo si faccia con carità e senza reciproche scomuniche. Vale sempre l’antico adagio: In necessariis unitas; in dubiis libertas; in omnibus caritas.

Jesus di agosto ha riportato un fatto di cui non ero a conoscenza, avvenuto esattamente 34 anni fa, l’11 settembre 1976: Paolo VI ricevette a Castel Gandolfo Mons. Lefebvre, il quale si rivolse al Papa con queste parole: «Ci lasci fare, Santità, l’esperienza della Tradizione. Che ci sia, in mezzo a tutte le esperienze attuali, l’esperienza di ciò che è stato fatto per venti secoli». L’autore dell’articolo, lo storico Giovanni Miccoli, ricorda che Paolo VI, un mese dopo, rispose negativamente alla richiesta dell’Arcivescovo. Non mi sento di giudicare Papa Montini: probabilmente aveva ragione, in quel momento, a rigettare l’istanza. Era troppo importante, in quel momento, essere tutti uniti, sotto la guida di Pietro, nell’attuazione delle riforme volute dal Concilio. Come si può vedere da quanto riportato da Miccoli, la grande preoccupazione di Paolo VI era che si potesse intaccare l’“autorità apostolica del Concilio” (che non può essere in alcun modo messa in discussione neppure oggi) e — aggiungo io — la sua personale autorità pontificia.

Ma oggi la situazione è cambiata: il rinnovamento conciliare è stato attuato; semmai, è giunto il momento di fare una verifica e un bilancio di tale rinnovamento. Non c’è nulla di scandaloso se vengono messe in risalto alcune carenze e si suggeriscono possibili rimedi: è già avvenuto su molti aspetti; può avvenire su altri. In questi anni nella Chiesa sono sorte tante esperienze diverse, con i loro pregi e i loro limiti, ma tutte legittime. Possibile che non ci sia spazio anche per l’“esperienza della tradizione”? La richiesta che Mons. Lefebvre rivolse a Paolo VI 34 anni fa mi sembra piú che legittima: non pretendeva che tutta la Chiesa lo seguisse nella sua strada (come sembrerebbe talvolta che vogliano i lefebvriani odierni…); chiedeva solo che gli fosse permesso di percorrere un cammino diverso, senza escludere o giudicare i cammini altrui («… in mezzo a tutte le esperienze attuali…»). Come si può negare tale possibilità oggi, che a tutti viene concesso di seguire il proprio carisma? L’unica cosa che si deve esigere dai lefebvriani, oltre alla professione della medesima fede, è di rimanere fedeli allo spirito del loro fondatore: fare, sí, l’esperienza della tradizione, ma senza avere la pretesa che quell’esperienza sia esclusiva e normativa per tutti. A queste condizioni, l’esperienza della tradizione potrà tornare a costituire una ricchezza per tutta la Chiesa e, a loro volta, i suoi seguaci potranno beneficiare delle ricchezze delle altre legittime esperienze ecclesiali.

mercoledì 8 settembre 2010

Pedofilia e pedofilia

Venerdí scorso, 3 settembre, Euronews dava notizia della condanna di sei vip portoghesi, accusati di abusi commessi, alla fine degli anni Novanta, su minori ospitati presso la “Casa Pia”, un antico orfanotrofio pubblico di Lisbona. Beh, pensavo, domani leggeremo con calma sui giornali i particolari della vicenda.

È passata quasi una settimana, ma sto ancora aspettando che la stampa italiana riporti la notizia. Se si fa eccezione per Avvenire, che le ha dedicato un trafiletto (si veda, nell’Archivio storico di Avvenire.it, a p. 16 del 4 settembre 2010), i “giornaloni” l’hanno completamente ignorata. Tamquam non esset. Eppure, si sarebbe pensato che, dopo la mobilitazione generale che si è avuta contro la pedofilia nei mesi scorsi — che ci ha resi tutti piú sensibili verso questo crimine — fosse una notizia che avrebbe meritato una qualche attenzione. Dopo tutto, è pur sempre uno scandalo che in Portogallo da diversi anni sta avendo una notevole risonanza. Per farvi un’idea di che cosa si tratta, leggete questo articolo di Wikipedia. Come potete vedere, si tratta di una vicenda che meriterebbe per lo meno il trafiletto di Avvenire. E invece no. Alla stampa italiana non interessa nulla delle vittime dei vip portoghesi.

Ci hanno fatto una testa cosí per mesi e mesi sulle vittime di sconosciutissimi preti, vissuti cinquant’anni fa nelle piú remote regioni degli Stati Uniti e dell’Irlanda; hanno pubblicato i dossier dove venivano descritti per filo e per segno tutti i dettagli degli abusi; si sono stracciate le vesti per la corruzione che cova all’interno della Chiesa cattolica; hanno preteso che tutti ci indignassimo per l’efferatezza di certi abusi… e adesso che un tribunale condanna sei vip che hanno abusato per anni di bambini abbandonati in una grande capitale europea, tutto tace. Oibò, c’è qualcosa che non torna.

Qualcuno penserà di aver già capito dove voglio arrivare: nei mesi scorsi si trattava di preti cattolici; ora si tratta di gente comune. E invece no, non è tanto questo che mi indigna. Dobbiamo dare atto che, nel bel mezzo della campagna contro la pedofilia nella Chiesa cattolica, c’era sempre qualche benpensante che riconosceva che la pedofilia non era monopolio dei preti, ma era diffusa anche fra gli insegnanti, gli allenatori sportivi, i capi scout, i pastori protestanti e i rabbini ebrei, per non parlare della pedofilia all’interno della famiglia. E noi tiravamo un sospiro di sollievo, pensando: beh, beh, beh, allora non siamo soli. Mal comune, mezzo gaudio.

Ma non ci accorgevamo che tutte le categorie appena elencate sono in genere composte di “poveracci”. Nessuno ci ha mai parlato invece della pedofilia d’alto bordo: rock star, registi, direttori d’orchestra, ministri, primi ministri, capi di stato… In questi casi, o non se ne parla affatto (come nel caso dei politici) o, se se ne parla, lo si fa per difendere, se non addirittura osannare, i colpevoli (si vedano i casi di Michael Jackson e Roman Polanski). 

Questo spiega come mai il silenzio è caduto sulla vicenda portoghese: non si tratta di poveracci, si tratta di vip. Fra i quali, a quanto pare, la pratica della pedofilia è piuttosto comune. Qualcuno arriva a dire che si tratterebbe di un vero e proprio “rito di iniziazione”. Non so se ci sia ancora qualche anima bella che pensi che alla base della carriera ci siano i meriti della persona: se vuoi far carriera le tue doti valgono men che nulla; semmai, sono un impedimento. La regola è: meno vali, piú fai carriera. L’importante è entrare nel “giro” giusto. È ovvio che, per poter avanzare, ti venga chiesto di sottoporti a determinate prove, tra le quali non è da escludere che ci possa essere anche la pedofilia. Perché? Il motivo mi sembra abbastanza evidente: perché cosí sei ricattabile. Se non sei ricattabile, non farai mai strada; se lo sei, puoi arrivare ai livelli piú alti della società, perché sono certi — quelli che hanno in mano le leve del vero potere — che farai sempre e solo quello che vogliono loro.