domenica 19 giugno 2011

Riprendere il cammino

Non sono un esperto; raramente mi occupo di musica sacra. Lo feci, piú di una anno fa (26 gennaio 2010), solo per ribadire la necessità di attuare, anche in questo campo, il Concilio. Nonostante la mia incompetenza, mi fa piacere che prosegua il dibattito sulla musica sacra, anche se a tenerlo vivo è un pulpito alquanto improbabile come la Repubblica (non ce la vedo proprio nelle vesti di chi si indigna per il basso livello delle esecuzioni liturgiche), e anche se a gettare acqua sul fuoco si faccia avanti addirittura L’Osservatore Romano (che invece, a mio modesto parere, avrebbe piú di un motivo per preoccuparsi delle sorti della musica sacra). Ma tant'è.

Ho letto con interesse, e non posso non condividere, il commento di fr. A. R. all’articolo di Marcello Filotei, pubblicato dal quotidiano vaticano. Non credo ci sia bisogno di tornare, ancora una volta, sulla necessità di dare attuazione alle disposizioni conciliari.  Ciò su cui invece vorrei soffermarmi è una questione piú generale, che riguarda il rapporto fra la Chiesa pre- e post-conciliare. 

Quando ci si lamenta dello stato di abbandono in cui versa la musica sacra (basta leggere l’intervista a Mons. Pablo Colino, pubblicata su la Repubblica e riportata nel citato post di Cantuale Antonianum), si ha l’impressione che ogni problema sia iniziato col Vaticano II («Tutto è precipitato dopo il Concilio Vaticano II, con quella superficiale ondata di pseudorinnovamento che ha fatto tanti danni in quasi tutte le nostre chiese. Basta assistere a una qualsiasi celebrazione liturgica, per sentire orride schitarrate, pianole assordanti e cori superficiali. Il tutto diretto da maestri poco preparati»), mentre prima del Concilio sembrerebbe che si vivesse in una sorta di Eden musicale. Ecco, mi sembra che talvolta qualcuno manchi di senso storico: mentre si è molto accurati nell’individuare i difetti del presente, si è assolutamente incapaci di cogliere i limiti del passato.

Non è affatto vero che prima del Concilio tutto andasse bene dal punto di vista musicale. O meglio, diciamo che era in corso uno sforzo per rimettere ordine in questo campo, uno sforzo che il Concilio aveva fatto suo e aveva rilanciato, e che poi invece, anziché proseguire, si è completamente bloccato. Tale sforzo di restaurazione della musica sacra era stato intrapreso da San Pio X con il motu proprio “Tra le sollecitudini” (22 novembre 1903), una delle tante pietre miliari del movimento liturgico che ha preparato il Vaticano II. Forse sarebbe utile andare a rileggersi quel chirografo di Papa Sarto, perché ci si accorgerebbe che già allora (cent’anni fa!) doveva esserci qualche problemino, se il Pontefice, eletto da appena tre mesi, aveva sentito il bisogno di intervenire in maniera tanto autorevole. Pio X parlava di «abuso nelle cose del canto e della musica sacra», accennava al «funesto influsso che sull’arte sacra esercita l’arte profana e teatrale», lamentava «una continua tendenza a deviare dalla retta norma». 

Nell’Istruzione sulla musica sacra, che con quel motu proprio venne emanata, si affermava: «[La musica sacra] deve essere santa, e quindi escludere ogni profanità, non solo in se medesima, ma anche nel modo onde viene proposta per parte degli esecutori» (n. 2). Dopo aver dichiarato il gregoriano «canto proprio della Chiesa Romana» e «supremo modello della musica sacra», disponeva che esso «dovrà restituirsi largamente nelle funzioni del culto» (n. 3). Riconosciuto il valore della polifonia (n. 4), passava a trattare della musica contemporanea, di per sé non esclusa, purché «le composizioni musicali di stile moderno, che si ammettono in chiesa, nulla contengano di profano, non abbiano reminiscenze di motivi adoperati in teatro, e non siano foggiate neppure nelle loro forme esterne sull’andamento dei pezzi profani» (n. 5). Veniva invece totalmente escluso lo stile teatrale («che durante il secolo scorso fu in massima voga, specie in Italia», n. 6). Al n. 23 troviamo espresso un principio fondamentale:

«In generale è da condannare come abuso gravissimo, che nelle funzioni ecclesiastiche la liturgia apparisca secondaria e quasi a servizio della musica, mentre la musica è semplicemente parte della liturgia e sua umile ancella».

Possiamo consolarci: nil sub sole novi. Anzi, si direbbe che la situazione, agli inizi del Novecento, fosse peggiore di quella attuale. Nell’articolo apparso su la Repubblica Mons. De Gregorio fa riferimento al Regolamento sulla musica sacra emanato dalla Sacra Congregazione dei Riti nel 1884, che condannava la diffusione nelle chiese di «polcke, valzer, mazurche, minuetti, rondò, scottisch, varsoviennes, quadriglie, galop, controdanze, e pezzi profani come inni nazionali, canzoni popolari, erotiche o buffe, romanze…». E molti continuano a pensare che, prima del Concilio, in tutte le chiese si cantassero solo gregoriano e polifonia… 

Diciamo la verità: il gregoriano, col passare dei secoli, era praticamente scomparso; era rimasto esclusiva dei monasteri. Fu appunto con il motu proprio di San Pio X che esso venne restaurato come «canto proprio della Chiesa Romana» e ne venne promossa la diffusione. Ma allora, nelle chiese che cosa si cantava? O non si cantava affatto (al massimo, si eseguiva qualche canto popolare); o, se si cantava, soprattutto nelle grandi occasioni, si era diffuso quello “stile teatrale” stigmatizzato da Papa Sarto.

Che la musica di chiesa avesse assunto un carattere profano non doveva essere solo una tendenza dell’Ottocento. Secondo me, era un difetto diffuso già nei secoli precedenti. Altrimenti non si capirebbe perché nella mia Congregazione, sorta nel Cinquecento, l’Ufficio divino non doveva essere cantato (neppure in gregoriano!), ma solo recitato recto tono, e le Costituzioni prescrivessero, con insolito rigore: «Musicus cantus, etiam qui firmus vulgo dicitur, aut musica instrumenta ne admittantur ita ut dispensari hac in re non possit [= non si ammetta il canto, neppure quello comunemente detto fermo, o gli strumenti musicali. E in ciò non si può dispensare]» (solo nei secoli successivi tale norma fu attenuata, permettendo il canto e gli strumenti musicali «dummodo nihil omnino profanum sapiant quod domus Dei sanctitatem dedeceat, mentesque fidelium a rerum caelestium contemplatione avertat [= purché non contengano alcunché di profano, che non conviene alla santità della casa di Dio e distoglie le menti dei fedeli dalla contemplazione delle cose celesti]». Ecco dunque la solita grande preoccupazione che ritorna (e che spiega l’iniziale proibizione): nelle chiese era entrata la musica profana; bisognava far di tutto per ridare sacralità alla liturgia. Esattamente il problema attuale.

Ci si potrebbe chiedere come mai era venuta a crearsi una simile situazione. Non so se siano stati fatti studi specifici in proposito. Io tento di dare una risposta, pienamente consapevole che essa possa essere contestata e possano essere date interpretazioni diverse. Innanzi tutto, una costatazione: non è vero che gli attuali abusi sono frutto della riforma liturgica conciliare e che col rito tridentino essi non sarebbero mai potuti accadere. Il caso che stiamo affrontando dimostra esattamente il contrario: anche prima del Concilio potevano esserci (e di fatto ci furono) abusi, e anche allora si doveva faticare per eliminarli (esattamente come oggi). Anzi, si potrebbe pensare che, almeno in campo musicale, certi abusi furono in qualche modo favoriti dalla liturgia, cosí come era stata riordinata dal Concilio di Trento. Voglio dire che era pressoché inevitabile che una liturgia che escludeva la partecipazione “attiva” dei fedeli finisse, prima o poi vittima dello “stile teatrale”. Qualcuno potrà giudicare avventata tale affermazione; può darsi che lo sia. Ma mi pare significativo che, mentre in ambito protestante si stava creando un magnifico repertorio di inni sacri che tutti i fedeli potevano (anzi, dovevano) cantare, nella Chiesa cattolica si sviluppò la polifonia, che sarà pure una starordinaria espressione di fede e di arte, ma che certo non favorisce la partecipazione diretta dei fedeli. Non c’è dubbio che la Chiesa ebbe tutti i motivi per agire come agí; ma non dobbiamo avere paura di riconoscere le inevitabili conseguenze negative che certe scelte (ripeto, pienamente legittime e giustificate) comportarono. Per fortuna, ci furono santi, come Alfonso Maria de’ Liguori, che, animati da autentico senso pastorale, composero canti popolari (p. es. Tu scendi dalle stelle) per permettere ai fedeli di esprimere la loro fede con semplicità.

Il movimento liturgico sorse nella Chiesa proprio per porre rimedio a queste storture. San Pio X lo fece suo, ed è cosí che, a poco a poco, cominciò a diffondersi nella Chiesa l’uso del canto gregoriano. Arrivò il Concilio Vaticano II, che, a sua volta, recepí in pieno i propositi del movimento liturgico. Si sperava perciò che gli sforzi iniziati all’inizio del Novecento potessero continuare dopo il Concilio con ancor maggiore vigore. E invece, avvenne tutto il contrario: proprio perché si fraintese completamente il Concilio (anziché come una tappa della tradizione, lo si considerò come il lasciapassare verso qualsiasi novità), si pensò che fosse arrivato il momento di gettare a mare tutto il patrimonio musicale che si era accumulato nel corso dei secoli e si dovesse ricominciare tutto da capo.

Quel che ora bisogna fare non è altro che riprendere un cammino che si stava facendo e che a un certo punto è rimasto interrotto. Non si tratta di tornare indietro, ma di andare avanti, ricominciando da dove ci si era fermati. Non si tratta neppure di sbarazzarsi di tutto ciò che in questi anni è stato fatto (un atteggiamento infantile, molto simile a quello immediatamente successivo al Concilio); c’è sicuramente qualcosa, anzi molto, di buono che può essere salvato. Cosí pure, nel clima di ecumenismo che si è instaurato con il Concilio, potrà essere utile fare nostro il patrimonio musicale che le Comunità della Riforma hanno messo insieme in questi secoli di divisione: se quegli inni hanno nutrito la pietà dei fedeli e hanno permesso la loro partecipazione liturgica, non potrebbero forse svolgere lo stesso compito nella Chiesa cattolica meglio di tante canzonette improvvisate degli ultimi anni? Ciò che conta è l’atteggiamento di fondo: non quello di chi pensa di costituire l’inizio del mondo, ma quello di chi si riconosce parte di una storia, se ne considera debitore e sente il dovere di portarvi il suo piccolo contributo.

sabato 4 giugno 2011

In Ascensione Domini

Una delle novità della terza edizione del Missale Romanum (2002) è l’aggiunta di alcune Messe vespertine vigiliari. Nelle precedenti edizioni (e quindi anche in tutte le traduzioni attualmente in uso), nel “Proprium de tempore”, erano previste Messe vigiliari a Natale, Pasqua e Pentecoste; nel “Proprium de Sanctis”, nelle solennità di San Giovanni Battista (24 giugno), dei Santi Pietro e Paolo (29 giugno) e dell’Assunzione (15 agosto). Nella editio typica tertia ne sono state aggiunte altre due: per l’Epifania e per l’Ascensione. Mi pare che si tratti di un arricchimento notevole del Messale rinnovato. Mi permetto di riportare il formulario della Missa in vigilia dell’Ascensione, per quanti fossero sprovvisti del nuovo Messale, in attesa che siano pubblicate le nuove edizioni in lingua volgare. Lascio a ciascuno di gustare la ricchezza teologica e spirituale dei testi.


Ant. ad introitum (Ps 67, 33.35)

Regna terræ cantáte Deo, psállite Dómino,
qui ascéndit super cælum cæli;
magnificéntia et virtus eius in núbibus, allelúia

Collecta

Deus, cuius Fílius hódie in cælos,
Apóstolis astántibus, ascéndit,
concéde nobis, quǽsumus,
ut secúndum eius promíssionem
et ille nobíscum semper in terris
et nos cum eo in cælo vívere mereámur.
Qui tecum.

Super oblata

Deus, cuius Unigénitus, Póntifex noster,
semper vivens sedet ad déxteram tuam
ad interpellándum pro nobis,
concéde nos adíre cum fidúcia ad thronum grátiæ,
ut misericórdiam tuam consequámur.
Per Christum.

Ant. ad communionem (cf Hebr 10, 12)

Christus, unam pro peccátis ófferens hóstiam,
in sempitérnum sedet in déxtera Dei, allelúia.

Post communionem

Quæ ex altári tuo, Domine, dona percépimus,
accéndant in córdibus nostris cæléstis pátriæ desidérium,
et quo præcúrsor pro nobis introívit Salvátor,
fáciant nos, eius vestígia sectántes, conténdere.
Qui vivit et regnat in sǽcula sæculórum.


C’è da rilevare però che, a quasi dieci anni dalla pubblicazione del nuovo Messale, non è stata ancora indicata, per tale Messa, una serie di letture appropriate (ricordo che in occasione della pubblicazione dell’editio typica altera dell’Ordo lectionum Missae, nel 1981, erano state introdotte, per quella che ora è diventata la “Messa del giorno”, due seconde letture facoltative rispettivamente per gli anni B e C). Se fosse stato fatto per tempo, le letture per la Messa vigiliare potevano essere inserite nella nuova edizione del Lezionario italiano, e si sarebbero potute usare anche in mancanza del formulario della Messa.

Un’ultima annotazione. La terza edizione del Messale ha introdotto un’aggiunta significativa anche nella Messa del giorno: alla colletta usuale ha aggiunto, come seconda opzione, l’orazione che si trovava nel Missale Romanum del 1962, recuperando in tal modo un testo d’indubbio valore.