martedì 31 maggio 2011

Parliamo un po’ di politica

Sono stato facile profeta, un mese fa, a prevedere come sarebbe andata a finire (qui). Che la decisione di Berlusconi di autorizzare i bombardamenti in Libia costituisse il suo suicidio politico, non ci voleva molto a capirlo. Oh, certo, ci saranno i soliti analisti politici che si preoccuperanno di assicurarvi che la fine di Berlusconi è dovuta soprattutto alle sue intemperanze morali. Io invece vi dico che agli italiani, di Ruby & C., non interessa un fico secco. Gli interessa invece della guerra in Libia. Interessa loro di Gheddafi? Ne dubito. Interessano loro le vittime civili, non solo quelle — messe in mostra dalla TV — di Gheddafi, ma anche quelle — occultate, ma innegabili — della NATO? Forse. Certamente però interessa loro che in un momento di gravissima crisi economica, in cui si chiede a tutti di fare sacrifici, si trovino poi i soldi per una guerra, di cui ancora qualcuno deve spiegarci il perché. Chi pagherà questa guerra? Già si stanno preparando nuove manovre finanziarie, per “mettere a posto i conti”. E chi ne pagherà il prezzo? Gli italiani, appunto, i quali, stufi di questa situazione, hanno voluto mandare un segnale a chi li governa.

Non so se il segnale sarà compreso. Basta vedere le reazioni ai risultati elettorali, per rendersi conto che nessuno a capito nulla. Che la sinistra canti vittoria, non può che suscitare il dubbio: ma ci fanno o ci sono? I “vincitori” di queste elezioni penseranno che gli italiani stiano chiedendo loro di riprendere al piú presto una politica di stampo zapateriano, senza accorgersi che in questi stessi giorni, in Spagna, quel tipo di politica è stata definitivamente liquidata. 

Che fare, allora? Ricompattarci tutti al centro, con Casini, Fini, Rutelli (e Montezemolo)? Se c’è qualcuno che esce sconfitto da queste elezioni, è proprio il “terzo polo”, che dimostra in tal modo la sua vera natura: una operazione di laboratorio, promossa dai poteri forti, come alternativa al berlusconismo; un’operazione che, come tutte quelle di carattere azionista che l’hanno preceduta, non potrà mai raccogliere il consenso popolare.

Ieri Andrea Tornielli ha riferito di un incontro del Segretario della CEI, Mons. Mariano Crociata, con i parlamentari cattolici dei diversi schieramenti. È da un po’ di tempo che si parla della necessità, in Italia, di “una nuova generazione di politici cattolici”. Un discorso ampiamente condivisibile, anche se, almeno per il momento, si fa fatica a vedere in che modo sia possibile attuarlo. La Chiesa possiede ancora le abilità educative (famiglia, parrocchia, scuola, università, associazioni, movimenti) necessarie per poter formare una nuova generazione di politici cattolici? Non credo che si possa accusare di disfattismo chi si permette di avanzare qualche dubbio in proposito. 

Personalmente penso che, nella situazione in cui ci troviamo, non ci si possa fare illusioni su una ricomposizione immediata, come oggi si dice, del “tessuto sociale” in senso cristiano. Dopo secoli di smantellamento della “cristianità” (ché di questo si tratta: la crisi che stiamo vivendo non è, come molti credono, il risultato delle scelte avventate degli ultimi decenni, ma la conseguenza di premesse che affondano le radici lontano nel tempo), non si può pretendere di ricostruirla in quattro e quattr’otto. Al punto in cui siamo arrivati, sono convinto che non si possa piú pensare di risolvere la situazione con interventi limitati, unicamente tesi a salvare il salvabile. La stessa esperienza postbellica della DC dovrebbe insegnare qualcosa (per non parlare delle piú recenti esperienze di presenza dei cattolici nei due poli contrapposti). Penso che non rimanga altro da fare che ricominciare tutto da capo, tornare all’epoca degli apostoli e riprendere ad annunciare il kerygma di Cristo morto e risorto. Nel frattempo tutto ciò che ci circonda sarà definitivamente crollato, e allora si potrà cominciare a ricostruire da zero.

In questi giorni mi è tornato in mente un intervento che feci piú di dieci anni fa, il 19 giugno 1998, quando ero ancora alla Querce, per la presentazione di un libro scritto da un nostro insegnante impegnato in politica: Breviario del buon governo del Prof. Franco Banchi. Mi permetto di riproporvelo, perché ho l’impressione che, nonostante il tempo trascorso, conservi tutta la sua attualità.


Un punto di riferimento essenziale

Spesso si ripete, a ragione, che la politica può essere — deve essere — per il cristiano, una forma di carità. Essa è certamente un servizio, e il servizio è una delle espressioni piú alte della carità. Ma non si dice mai che l’impegno politico per un cristiano è, innanzi tutto, una forma di apostolato. Di solito si dà a questa espressione un significato restrittivo, come se stesse a indicare esclusivamente l’annunzio del vangelo, un compito per altro solitamente demandato al clero.

Afferma il Concilio Vaticano II, nel suo decreto sull’apostolato dei laici: «La missione della Chiesa non è soltanto di portare il messaggio di Cristo e la sua grazia agli uomini, ma anche di permeare e di perfezionare l’ordine delle realtà temporali con lo spirito evangelico» (Apostolicam actuositatem, n. 5). Dunque un’unica missione, che però si realizza in due direzioni: l’evangelizzazione e la “sacramentalizzazione” da una parte, l’animazione cristiana delle realtà terrene dall’altra. L’apostolato consiste nell’attività della Chiesa ordinata alla realizzazione di questa missione (cf ibidem, n. 2). La Chiesa esercita l’apostolato mediante tutti i suoi membri, sia chierici sia laici, anche se, in genere, ai primi è riservata preferibilmente la predicazione e l’amministrazione dei sacramenti, ai secondi l’animazione cristiana della società. Si tratta comunque pur sempre del medesimo apostolato, svolto in due ordini diversi, quello spirituale e quello temporale. A proposito di tali ordini, il Concilio aggiunge: «Questi ordini, sebbene siano distinti, nell’unico disegno di Dio sono cosí legati, che Dio stesso intende ricapitolare in Cristo tutto il mondo per formare una nuova creazione, in modo iniziale su questa terra, in modo perfetto nell’ultimo giorno» (ibidem, n. 5). Ne deriva il seguente corollario: «In ambedue gli ordini il laico, che è a un tempo fedele e cittadino, deve continuamente farsi guidare dalla sola coscienza cristiana (“una conscientia christiana continenter duci debet”)» (ibidem).

Dunque, due sono gli ordini, ma una sola è — deve essere — la coscienza: il cristiano deve essere guidato nel suo impegno temporale esclusivamente dalla coscienza cristiana. Bando perciò a tutte le dicotomie — vere e proprie schizofrenie! — che hanno segnato e, purtroppo, spesso continuano a segnare la presenza dei cattolici in politica. Talvolta si pensa che il cristiano abbia due coscienze: una, quella cristiana, a cui far riferimento nella propria vita personale, e un’altra, quella civile, necessariamente “laica”, a cui far riferimento nel proprio impegno nel mondo. Tale atteggiamento è assolutamente inaccettabile per un credente. Più volte, nei giorni scorsi, L’Osservatore romano ci ha riproposto l’esempio di re Baldovino, che preferí dimettersi — ed era disposto a rinunciare al trono — pur di non firmare una legge contraria alla sua coscienza cristiana.

Ma non corriamo, in tal modo, il pericolo di ricadere in una nuova forma di integralismo?


Per evitare l’integralismo

La riflessione della Chiesa negli ultimi anni ha portato a una nuova importante acquisizione, che, se osservata, impedirà di cadere nel pericolo, sempre incombente, dell’integralismo.

La nuova acquisizione consiste nel distinguere vari momenti nell’impegno cristiano, una specie di rifrazione, attraverso la quale, si scoprono, prima dell’impegno propriamente politico, una serie di momenti pre-politici, che non possono in alcun modo essere trascurati, se si vuole svolgere una corretta azione politica.

Innanzi tutto il momento spirituale: il momento della fede, della preghiera, del silenzio, dell’ascolto della parola di Dio, della formazione biblica, teologica e spirituale. È il punto di partenza, che non si può mai tralasciare: è il momento necessario per “abbeverarsi” alla fonte.

Quindi il momento culturale, il momento dell’inculturazione del vangelo, dell’incarnazione del messaggio nelle categorie proprie di una determinata cultura. A questo proposito, meraviglia come oggi si parli tanto di inculturazione con riferimento ai popoli del terzo mondo, e poi a casa nostra si esiga un cristianesimo “tutto spirituale”, purificato da qualsiasi incrostazione culturale. Per capire l’importanza della mediazione culturale, non è necessario ricorrere a Gramsci, con la sua “teoria dell’egemonia”, dal momento che i cristiani hanno sempre fatto ciò che poi Gramsci ha teorizzato: si pensi alla prima diffusione del vangelo o anche, piú vicino a noi, a ciò che avvenne nell’Italia postunitaria, mentre vigeva il Non expedit. Constatiamo con piacere che la Chiesa italiana si è messa su questa strada, con la decisione, presa al Convegno di Palermo, di procedere all’elaborazione di un nuovo “progetto culturale”.

In terzo luogo, il momento sociale, che consiste nell’animazione della società civile. Si pensi ai vari campi in cui è solitamente impegnato il volontariato: i giovani, i tossicodipendenti, gli handicappati, gli anziani, i lavoratori, i disoccupati, gli extracomunitari, gli emarginati in genere. Si pensi ancora alla difesa della vita e dell’ambiente. In questo vasto campo il punto di riferimento rimane la dottrina sociale della Chiesa, che durante quest’ultimo secolo ha allargato i suoi orizzonti dalla questione operaia a tutti i problemi della società odierna.

Infine il momento specificamente politico, che consiste nella presenza del cristiano nelle istituzioni (quartiere, comune, provincia, regione, Stato) e che può comportare anche l’assunzione di determinate responsabilità, ma che non può in alcun modo trasformarsi in pura e semplice “occupazione del potere”. L’autenticità di quest’ultimo momento dipende tutta dai momenti precedenti: solo chi è disposto a percorrere le tappe pre-politiche, sarà anche un buon politico cattolico.


Un errore da evitare

Occorre assolutamente evitare l’errore di pensare che l’unico problema sia da che parte stare, se a destra o a sinistra, o se non sia piuttosto necessario ricostituire un “grande centro”, in cui far confluire tutti i cattolici.

Il problema, in realtà, è molto più profondo. Attualmente noi ci troviamo di fronte non solo a una sinistra, ma anche a una destra e, ahimè, anche a un centro completamente secolarizzati. Allora il vero problema è quello di rievangelizzare la politica. Occorre ricominciare da capo, come duemila anni fa: il cristiano, ovunque schierato, è chiamato a “permeare l’ordine delle realtà temporali con lo spirito evangelico”. Su questo piano, sul piano della fede e dei valori morali, tutti i cattolici sono — devono essere — uniti, al di là degli schieramenti. Devono essere non cattolici di destra, di sinistra o di centro, non “cattolici liberali” o “cattolici democratici”, “cattocomunisti” o “clericofascisti”, ma semplicemente cattolici — come ci ricordava giorni fa L’Osservatore romano (15-16 giugno 1998) — “cattolici senza aggettivi”.


Solo una postilla, a proposito del “progetto culturale”: son passati tredici anni, e il “progetto culturale” è rimasto, appunto, un grande progetto. Questo per dire che non bastano le belle idee, le grandi intuizioni, i programmi dai vasti orizzonti. Forse bisogna proprio ripartire dall’essenziale.

domenica 22 maggio 2011

A proposito di “Universae Ecclesiae”

«Le sentenze non si discutono, si applicano». Semmai, si appellano. Mutatis mutandis, tale principio, proprio dell’ordinamento civile, può essere estensivamente applicato anche a quello canonico. Per cui i provvedimenti dell’autorità ecclesiastica non dovrebbero essere oggetto di discussione, ma di semplice esecuzione. Nel caso di decisioni prese da un’autorità inferiore si può sempre prevedere un ricorso all’autorità superiore; nel caso degli atti pontifici, invece, non è previsto alcun tipo di ricorso: le sentenze emesse dal Sommo Pontefice sono inappellabili (can. 1629); addirittura, chi ricorre al Concilio ecumenico o al Collegio dei Vescovi contro un atto del Romano Pontefice deve essere punito con una censura (can. 1372).

Fondandomi su questo principio, avevo pensato di non pronunciarmi a proposito della pubblicazione dell’istruzione Universae Ecclesiae. È vero, non si tratta di un intervento pontificio, ma di un documento della Pontificia Commissione “Ecclesia Dei”. Quindi, teoricamente, se ne potrebbe anche discutere; ma a me pare che esso faccia proprio ciò che devono fare le istruzioni: «rendono chiare le disposizioni delle leggi e sviluppano e determinano i procedimenti nell’eseguirle» (can. 34). Mi sembra che Universae Ecclesiae assolva correttamente questo compito nei confronti del m. p. Summorum Pontificum, il quale, essendo un atto del Papa, non dovrebbe essere messo in discussione. Ritengo che la nuova istruzione non aggiunga molto al motu proprio: essa si limita a fare alcune precisazioni, tese a evitare che d’ora in poi ci possano essere equivoci nell’interpretazione di Summorum Pontificum.

Se proprio si volesse cercare nell’istruzione una qualche novità rispetto al motu proprio, personalmente direi che questa vada ricercata nel primo degli obiettivi del documento papale, individuati al n. 8:

«[Il motu proprio] si propone l’obiettivo di:
a) offrire a tutti i fedeli la Liturgia Romana nell’Usus Antiquior, considerata tesoro prezioso da conservare;
b) garantire e assicurare realmente a quanti lo domandano, l’uso della forma extraordinaria, nel presupposto che l’uso della Liturgia Romana in vigore nel 1962 sia una facoltà elargita per il bene dei fedeli e pertanto vada interpretata in un senso favorevole ai fedeli che ne sono i principali destinatari;
c) favorire la riconciliazione in seno alla Chiesa».

Sul secondo e terzo obiettivo, nulla da eccepire, dal momento che essi sono chiaramente espressi nel motu proprio e nella lettera accompagnatoria ai Vescovi (si veda il mio post del 16 settembre 2010). Onestamente, non mi sembra che si possa dire altrettanto del primo obiettivo: finora ne potevano aver parlato alcuni prelati; ma faccio fatica a trovare quell’obiettivo esplicitamente dichiarato all’interno del motu proprio. In ogni caso, non ho nulla da ridire in proposito: se questa era veramente la mens del Santo Padre, era giusto che essa, rimasta implicita nel motu proprio, venisse esplicitata nell’istruzione. Non posso però non rilevare che, a mio modesto avviso, con l’attuale disciplina, non sarà facile raggiungere quell’obiettivo. Mi spiego: il motu proprio permette, ma non impone la celebrazione della Messa secondo il vecchio rito; per cui non vedo come, con una celebrazione che di fatto rimarrà limitata ai gruppi che ne faranno richiesta, si possa perseguire l’obiettivo di «offrire a tutti i fedeli la Liturgia Romana nell’Usus Antiquior, considerata tesoro prezioso da conservare».

Potrei fermarmi qui. Ma, siccome sono stato sollecitato a prendere posizione nel dibattito che è seguito alla pubblicazione dell’istruzione, mi sembrerebbe scortese rispondere con un secco «No comment». In particolare mi è stato chiesto di esprimere un’opinione sul commento del Prof. Andrea Grillo, pubblicato nel suo blog e ripreso dal Padre Augé. Devo precisare di aver letto il post del Prof. Grillo, ma di non aver potuto seguire i commenti pubblicati nel blog Liturgia Opus Trinitatis, perché da qualche tempo un misterioso problema tecnico mi impedisce di visitarlo.

Quanto alle considerazioni del Prof. Grillo, si potrà pure contestare il loro tono un tantino “brutale” o, come è stato detto, “temerario”; ma non le si può ritenere prive di qualsiasi fondamento. Il suo intervento potrà certo essere criticato; ma non può essere liquidato semplicemente come la reazione isterica di un nostalgico modernista o come l’atto di insubordinazione di un liturgista disobbediente al Papa. Secondo me, esso deve essere accolto come una stimolante provocazione, che ci costringe a riflettere su una situazione che non può essere considerata scevra di problemi.

Non mi sembra il caso di riprendere e discutere qui le singole osservazioni di Grillo. Ritengo piú utile esporre le mie personali riflessioni (che avrei preferito tenere per me) non tanto sull’istruzione (che — ripeto — non mi sembra portatrice di grandi novità), quanto piuttosto sul “doppio regime” liturgico, introdotto dal m. p. Summorum Pontificum e confermato dall’istruzione Universae Ecclesiae. Che qualche problema esista non sono solo il Prof. Grillo o il Padre Augé a dirlo. Proprio questo fine-settimana Vittorio Messori, col suo solito disarmante buon senso, faceva notare:

«Ma se il vecchio rito era bello e buono, come adesso si riconosce, perché è stato sostituito? Perché, anzi, è stato stravolto? Se si voleva solo cambiare la lingua, perché non è stato tradotto dal latino con solo qualche ritocco qua e là, come è avvenuto altre volte nella storia della Chiesa?» (La Bussola Quotidiana).

Per quanto mi riguarda, mi ero già espresso su Summorum Pontificum (i vedano i post del 6 marzo 2009 e del 18 luglio 2009). Forse qui conviene riprendere i punti allora enunciati e aggiungerne qualche altro frutto di successive riflessioni.

1. Innanzi tutto, a proposito del presupposto della nuova disciplina, Summorum Pontificum afferma che il vecchio rito non è stato mai abolito. Non mi sembra che tale affermazione trovi corrispondenza nella volontà piú che esplicita di Paolo VI di sostituire il Vetus Ordo con il Novus.

2. Sono sempre stato favorevole al fatto che ai fedeli tradizionalisti fosse riconosciuto il diritto di partecipare alla Messa secondo l’antico rito; ciò che mi crea difficoltà è la totale liberalizzazione di esso. Secondo me, per garantire quel sacrosanto diritto, non era necessario giungere alla liberalizzazione (che ritengo sia stata accordata esclusivamente per motivi di “politica ecclesiastica”, vale a dire per venire incontro ai lefebvriani, che l’avevano richiesta). Quel diritto poteva essere garantito tranquillamente attraverso l’istituto dell’indulto. Si dirà: ma l’indulto già esisteva e aveva mostrato i suoi limiti. Bene, a mio parere, bisognava trovare il modo di renderlo piú efficace senza giungere alla completa liberalizzazione. 

3. Personalmente trovo che l’attuale “doppio regime” non possa che essere fonte di confusione e divisioni. Si dirà: ma perché non si sottolineano i medesimi pericoli quando si tratta degli abusi liturgici? Rispondo: semplicemente perché, in quel caso, si tratta appunto di abusi; qui invece si sta parlando della norma. Diverso sarebbe stato se si fosse proseguito sulla strada dell’indulto. L’indulto è un privilegio, un’eccezione alla norma, accordata a determinati gruppi, senza mettere in discussione la norma stessa, che resta vincolante per tutti (“l’eccezione conferma la regola”). Personalmente, non ho alcuna difficoltà ad ammettere l’esistenza di amministrazioni apostoliche, ordinariati, prelature personali, istituti di vita consacrata, società di vita apostolica, parrocchie, rettorie, cappellanie, associazioni di fedeli, che godano del privilegio, da prevedere negli statuti, di celebrare secondo l’antica liturgia. Ecco, se proprio la disciplina precedente non sembrava soddisfacente, si poteva disporre che in ciascuna diocesi, in assenza di istituti “Ecclesia Dei”, si istituisse una parrocchia personale o, almeno, una cappellania per venire incontro ai fedeli legati alla tradizione. Trovo difficile da accettare invece che i due usi del rito romano vengano considerati su un piano di perfetta parità, e che ognuno possa sentirsi libero di scegliere una delle due forme, e che un qualsiasi gruppo di fedeli possa andare da un parroco e “pretendere” che si celebri la Messa tridentina.

4. Faccio fatica a capire come tali gruppi di fedeli (giuridicamente non ben definiti) possano godere di una sorta di “corsia preferenziale” rispetto a tutti gli altri fedeli, che sono tenuti a uniformarsi alle norme pastorali vigenti in ciascuna diocesi. Faccio un esempio che mi tocca da vicino: noi religiosi (che non siamo dei gruppi spontanei, ma delle persone giuridiche ufficialmente riconosciute dalla Chiesa ed esenti dal governo degli Ordinari del luogo) siamo soggetti alla potestà dei Vescovi in ciò che riguarda la cura delle anime, l’esercizio pubblico del culto divino e le opere di apostolato (can. 678 § 1). In qualche caso ciò si traduce in forti limitazioni nel decidere il numero e l’orario delle Messe, nella celebrazione del triduo pasquale e nell’amministrazione dei sacramenti (prima comunione, cresima, matrimonio) nelle nostre chiese non-parrocchiali o nei nostri oratori semipubblici. Non riesco a capire perché i gruppi tradizionalisti debbano godere di facoltà piú ampie di quelle dei religiosi (al punto che possono ottenere la reiterazione dei riti della settimana santa nella stessa chiesa: Universae Ecclesiae, n. 33).

5. Uno dei punti qualificanti del motu proprio (piú precisamente, della concomitante lettera ai Vescovi) è la riaffermazione della continuità tra Vetus e Novus Ordo: «Non c’è nessuna contraddizione tra l’una e l’altra edizione del Missale Romanum. Nella storia della Liturgia c’è crescita e progresso, ma nessuna rottura». Ebbene, non mi sembra che la disciplina del “doppio regime” metta in risalto tale continuità: se si parla di continuità di due segmenti, ci si pone su una stessa linea retta; se si “giustappongono” (Universae Ecclesiae, n. 6; si veda il commento di Cantuale Antonianum) i due riti, li si pone su due rette parallele, e non si può piú parlare di continuità. Una volta dichiarata la continuità tra il vecchio e il nuovo rito, tutti dovrebbero accettare il nuovo come sostitutivo del vecchio (senza escludere, come detto, eventuali eccezioni, che però devono rimanere tali). La giustapposizione è una forma di dualismo, che non favorisce in alcun modo la percezione della continuità.

6. La stessa terminologia scelta per distinguere i due usi (“forma ordinaria” e “forma straordinaria”), che condivido, a mio parere implicherebbe una diversa disciplina, vale a dire quella dell’indulto e non quella della coesistenza su un piano di parità (nel qual caso non si capisce perché una forma debba essere considerata “ordinaria” e l’altra “straordinaria”).

7. Recentemente il Card. Kurt Koch ha affermato che Benedetto XVI avrebbe avviato col motu proprio la “riforma della riforma”, da lui a piú riprese auspicata prima di diventare Papa. Sinceramente tale affermazione suscita in me qualche perplessità: non riesco a vedere come la liberalizzazione del rito tridentino possa segnare l’inizio della “riforma della riforma”. A mio parere, una “riforma della riforma” era già in corso nella Chiesa dal giorno in cui era entrato in vigore il Novus Ordo. Certo, nessuno usava quell’espressione, ma di fatto di questo si trattava; o, se vogliamo, si trattava di una continuazione, di uno sviluppo della riforma. Un fatto è certo: la riforma liturgica non poteva dirsi conclusa. Man mano che passavano gli anni venivano introdotte delle correzioni e degli adattamenti; molto spesso si recuperavano elementi che erano stati forse un po’ frettolosamente accantonati dalla prima riforma. Testimoni di tale evoluzione sono le tre edizioni del Missale Romanum: si faccia un confronto tra la prima e la terza, e si vedranno le differenze. Bene, ho paura che il motu proprio, nonché favorire la “riforma della riforma”, finisca per bloccarla. Il rischio, non remoto, è che si possa assistere a una polarizzazione dei due riti. Altro che continuità!

8. Il Card. Ratzinger aveva espresso l’opinione che «a lungo termine la Chiesa romana deve avere di nuovo un solo rito romano. L’esistenza di due riti ufficiali per i vescovi e per i preti è difficile da “gestire” in pratica» (lettera al Dott. Heinz-Lothar Barth del 23 giugno 2003). Ora tale convinzione è stata ripresa dal Card. Koch: «A lungo termine, non possiamo fermarci a una coesistenza tra la forma ordinaria e la forma straordinaria del rito romano … la Chiesa avrà nuovamente bisogno nel futuro di un rito comune». Se questo è lo scopo, a che pro liberalizzare l’usus antiquior? Risponde Koch, riprendendo le parole di Benedetto XVI: «Le due forme dell’uso del rito romano possono e devono arricchirsi a vicenda». Siamo proprio sicuri che ciò avverrà? D’accordo che «una nuova riforma liturgica non può essere decisa a tavolino, ma richiede un processo di crescita e di purificazione»; ma chiedo: tale “processo di crescita e di purificazione” non era già in corso? Non rischia ora di essere bloccato? Non conveniva che il Vetus Ordo rimanesse il rito proprio di alcune, ben definite, categorie di fedeli, e da tale posizione continuasse a influire sul Novus?

Solo domande, le mie, che non intendono in alcun modo mettere in discussione la piena legittimità del motu proprio e della sua istruzione applicativa. Come detto, avrei preferito tenere per me i miei dubbi; ma, visto che mi è stato richiesto, ho voluto condividerli con voi. Con semplicità. Sperando di non essere tacciato di modernismo e di disobbedienza al Santo Padre...

domenica 8 maggio 2011

Riforma liturgica tra passività e attivismo

Il Signor Benedetto Serra mi ha segnalato un articolo apparso sul numero 2/11 de La Nuova Europa, la rivista del Centro Russia Cristiana. L’articolo, intitolato “L’evoluzione liturgica al cambio di millennio”, è stato scritto da Antonij Lakirev, parroco ortodosso a Mosca. In esso si parla della questione, a lungo dibattuta, se fosse opportuno procedere a una riforma liturgica anche all’interno della Chiesa Ortodossa Russa. La tesi dell’autore è: 

«La riforma liturgica, della cui necessità hanno parlato tutti tante volte, si è già realizzata da tempo de facto. È stata la grande misericordia di Dio nei nostri confronti, perché se un cambiamento qualsiasi fosse avvenuto in seguito agli sforzi intenzionali dell’autorità, sicuramente ci sarebbero state conseguenze dolorose, sicuramente avremmo avuto scismi, odi reciprochi, accuse, eccetera. Invece la nostra vita liturgica oggi è radicalmente cambiata, rispetto a quella di venti trent’anni fa, senza troppi sconquassi».

Chiosa il Signor Serra: «Sono quasi convinto che se Paolo VI non avesse fatto la riforma, questa si sarebbe fatta da sola, e ci saremmo risparmiati i Lefebvriani».

Personalmente penso che l’articolo del P. Lakirev vada letto, innanzi tutto perché riflette il diverso atteggiamento che caratterizza le Chiese orientali e la Chiesa latina. Non so se avete notato che fra gli ortodossi è presente un atteggiamento che potremmo definire “passivo”: si lascia che trascorra il tempo, e nel frattempo i problemi si risolvono da soli. Un atteggiamento che ha sempre contraddistinto l’Oriente cristiano. Noi occidentali istintivamente rifiutiamo un atteggiamento del genere. Certamente, all’origine di tale diversità c’è una differenza di carattere; ma va anche riconosciuto il fondamento teologico di tale “passività”, vale a dire la consapevolezza della dipendenza dall’azione di Dio: «È stata la grande misericordia di Dio nei nostri confronti…». Noi, al contrario, siamo tentati di pensare che tutto dipenda dalla nostra iniziativa. 

Come si può vedere, la testimonianza di P. Lakirev ci stimola a recuperare un aspetto importante del cristianesimo. Ovviamente, ciascuno conserverà il proprio carattere; non possiamo pretendere che anche gli occidentali abbraccino la “passività” orientale (anche perché non sarebbe giusto); però è quanto mai opportuno ridimensionare il nostro “attivismo”, rendendoci conto che chi conduce la Chiesa non siamo noi, ma Dio.

Per venire alla questione della riforma liturgica, io stesso una volta avevo espresso l’opinione che, al momento del Concilio, era già in corso una riforma liturgica. Forse — e sottolineo il “forse” — si sarebbe potuto proseguire su quella strada (fondamentalmente condivisa da tutti), senza mettere in moto la grande macchina della “Riforma liturgica” postconciliare. E forse — come riassume in maniera un po’ brutale il Signor Serra — «ci saremmo risparmiati i Lefebvriani».

Non so però se tale ipotesi sia del tutto valida. Non solo perché la storia non si fa con i “se”, ma per vari altri motivi. Innanzi tutto perché quella riforma, iniziata prima del Concilio, aveva le sue pecche. Come in altri casi, il Concilio ha rappresentato un “riequilibrio” di tendenze piuttosto discutibili apparse durante il pontificato di Pio XII. Tanto per fare un esempio (ma non è l’unico), mi sono già occupato della nuova traduzione del Salterio, che rompeva completamente con la tradizione latina (qui).

In secondo luogo, su un piano teologico, per quanto sia giusto sottolineare che è Dio a guidare la Chiesa, ciò non significa che l’autorità in essa legittimamente costituita debba astenersi da qualsiasi intervento. Altrimenti, che ci stanno a fare il Papa e i Vescovi? Sono o non sono i Vicari di Cristo, i pastori a cui il Signore ha dato l’incarico di pascere il suo gregge?

Infine, su un piano piú pratico, la Chiesa cattolica non può essere paragonata a una qualsiasi, seppur consistente, Chiesa ortodossa. Certe riforme non possono essere lasciate al caso: è impensabile abbandonare una riforma liturgica alla spontaneità della “base”. Proprio perché la liturgia è azione di Cristo e della Chiesa, è inevitabile che ci sia una “norma” che tutti sono tenuti a seguire. 

Ma allora quale errore abbiamo commesso? Secondo me, l’errore non sta nel fatto che il Concilio abbia dato delle indicazioni su come la liturgia avrebbe dovuto essere rivista. L’errore è stato nell’atteggiamento con cui quelle direttive sono state applicate; un atteggiamento che è proprio l’opposto di quello dei nostri fratelli ortodossi; un atteggiamento che potremmo in qualche modo definire “titanico”: l’atteggiamento di chi pretende di ricominciare tutto da capo, di fare qualcosa di radicalmente nuovo, convinto di avere in tasca la soluzione a tutti i problemi, una soluzione frutto di elaborazioni puramente umane e pertanto “ideologica”. È ovvio che tale atteggiamento non ha caratterizzato solo la riforma liturgica, ma tutto il rinnovamento postconciliare.

L’atteggiamento giusto mi pare che sia quello contenuto nel bellissimo discorso rivolto da Benedetto XVI, venerdí scorso, ai partecipanti al convegno promosso dal Pontificio Istituto Liturgico “Sant’Anselmo”, in occasione del 50° della sua fondazione:

«La Liturgia della Chiesa va al di là della stessa “riforma conciliare” (cf Sacrosanctum Concilium, n. 1), il cui scopo, infatti, non era principalmente quello di cambiare i riti e i testi, quanto invece quello di rinnovare la mentalità e porre al centro della vita cristiana e della pastorale la celebrazione del Mistero Pasquale di Cristo. Purtroppo, forse, anche da noi Pastori ed esperti, la Liturgia è stata colta piú come un oggetto da riformare che non come soggetto capace di rinnovare la vita cristiana, dal momento in cui “esiste un legame strettissimo e organico tra il rinnovamento della Liturgia e il rinnovamento di tutta la vita della Chiesa. La Chiesa dalla Liturgia attinge la forza per la vita” … La Liturgia, teste privilegiato della Tradizione vivente della Chiesa, fedele al suo nativo compito di rivelare e rendere presente nell’hodie delle vicende umane l’opus Redemptionis, vive di un corretto e costante rapporto tra sana traditio e legitima progressio, lucidamente esplicitato dalla Costituzione conciliare al n. 23. Con questi due termini, i Padri conciliari hanno voluto consegnare il loro programma di riforma, in equilibrio con la grande tradizione liturgica del passato e il futuro. Non poche volte si contrappone in modo maldestro tradizione e progresso. In realtà, i due concetti si integrano: la tradizione è una realtà viva, include perciò in se stessa il principio dello sviluppo, del progresso. Come a dire che il fiume della tradizione porta in sé anche la sua sorgente e tende verso la foce».

Penso che, se ci libereremo delle opposte ideologie (progressista e tradizionalista), che hanno caratterizzato e continuano a caratterizzare la Chiesa postconciliare, e recupereremo un po’ dello spirito dei nostri fratelli ortodossi, la riforma liturgica, forse con qualche piccolo ritocco, possa andar bene cosí com’è.

mercoledì 4 maggio 2011

“Pro multis”

Il Prof. Giovanni Bazzana, Assistente di Nuovo Testamento alla Harvard Divinity School, a quanto pare, è un attento lettore di questo blog. Anche lui ha un suo blog (“dedicato al Nuovo Testamento e alla storia delle origini cristiane”) dal titolo Ta Biblia. Già in ottobre si era occupato dei miei post sulla nuova versione CEI della Bibbia (qui) e aveva poi precisato, su mia richiesta, il rapporto fra testo masoretico e Settanta, che mi risultava poco chiaro (qui). Successivamente aveva postillato il mio intervento sulle “Traduzioni edulcorate” (qui). Lo scorso gennaio aveva poi fatto riferimento al mio post sui salmi imprecatori (qui). Giorni fa infine si è occupato del mio recente post sulle “Stravaganze di traduzione e di interpretazione” (qui). Non posso che raccomandare anche ai miei lettori la lettura del post del Prof. Bazzana, perché si sofferma su un punto a cui siamo piuttosto sensibili, vale a dire il significato del “pro multis” (Mt 26:28). 

Il Professore corregge la mia affermazione, sicuramente esagerata, secondo cui «tutti gli esegeti ci assicurano che “per molti” è un semitismo che significa in realtà “per tutti”». Io non facevo che riportare l’interpretazione del Padre Zerwick (Analysis philologica Novi Testamenti Graeci, Romae, PIB, 3ª ed., 1966, p. 68): «sem. potest significare multitudinem simul cum totalitate = omnes qui multi sunt». Si veda pure, in proposito, la nota della TOB («per i molti, cioè, secondo il significato semitico della formula, per l’insieme degli uomini») o il Jerome Biblical CommentaryPer tutti senza alcuna riserva»). Giustamente Bazzana fa notare che «non è vero che tutti gli esegeti sostengono questa posizione», e cita il caso di Luz (il quale «non ritiene l’espressione un semitismo e non pensa che significhi “per tutti”») e quello di Joachim Jeremias (il quale «ammette che in ebraico o aramaico le espressioni equivalenti qualche volta possono voler dire “tutti”, ma che questa ovviamente non può essere la regola»). Va precisato, per poter capire la posizione di Jeremias, che egli ricorreva alla tecnica della retroversione (dal greco all’aramaico) per cercare di ricostruire gli ipsissima verba Jesu.

Il Prof. Bazzana spiega poi come si sia arrivati a identificare “per molti” con “per tutti”. La questione non sarebbe tanto di tipo linguistico, quanto piuttosto esegetico: secondo Jeremias, Mt 26:26-28 dipenderebbe da Is 53:11-12 (il quarto canto del Servo del Signore, dove si afferma che «il giusto mio servo giustificherà molti … io gli darò in premio molti ... egli portava il peccato di molti»). Tale constatazione permette a Bazzana di fare una riflessione assai interessante:

«Anche accettando il legame suggerito da Jeremias, è paradossale vedere come proprio questo offra un argomento molto forte contro l’esegesi “semitica”. Di Is 53:11-12 possediamo una traduzione greca (quella dei Settanta) e vale la pena di domandarsi: se l’ebraico rabbim aveva proprio questo chiaro significato di “tutti”, come mai i traduttori, che non brillavano certo per il loro letteralismo, l’hanno tradotto per ben tre volte nello spazio di due versi con polloi?

«È interessante domandarsi quale sia il supporto ideologico di queste esegesi fondate sulle retroversioni semitiche, dal momento che il loro valore storico è tanto scarso. Ho formulato tre ipotesi provvisorie. Anzitutto, discutendo della cosa con un collega, lui mi faceva notare che un peso notevole deve avere ancora l’idea che l’ebraico sia una “lingua divina”. In secondo luogo, ritornare all’originale semitico è un po’ parte dell’utopico tentativo di tornare al Gesú storico (combinato con il “dogma”, secondo il quale Gesú avrebbe parlato solo aramaico). Infine, l’impressione piú sgradevole, ma dalla quale è purtroppo difficile liberarsi quando si leggono esegesi come quelle di Jeremias, è che si tratti di un’altra forma di supersessionismo. Come i cristiani si appropriano della Bibbia degli ebrei, cosí possono fare anche con la loro lingua, dimostrando che gli ebrei non solo non sono stati capaci di capire il “vero” significato dei libri che consideravano sacri, ma anche della lingua stessa in cui erano scritti».

Decisamente interessante.