giovedì 14 gennaio 2016

Figlio “amato” o “prediletto”?



Dopo aver letto il mio ultimo post, uno dei lettori della prima ora mi fa notare che nel vangelo di domenica scorsa, mentre la vecchia traduzione della CEI (1974) faceva dire al Padre: «Tu sei il mio Figlio prediletto, in te mi sono compiaciuto», la nuova traduzione (2008) gli fa dire: «Tu sei il Figlio mio, l’amato: in te ho posto il mio compiacimento» (Lc 3:22). Secondo lui, «la nuova traduzione sminuisce il rapporto tra il Padre e il Figlio, che è imparagonabile, privilegiato, alfa e omega di ogni paternità e filialità sulla terra». E mi chiede un parere in merito. Lo faccio volentieri, perché si tratta di una di quelle questioni a metà strada tra la filologia e la teologia che mi hanno sempre appassionato. Vorrei però fare prima alcune premesse.

La prima premessa riguarda la nuova traduzione della CEI. Nuova, si fa per dire: ormai sono otto anni che è stata pubblicata. Ma per chi “è cresciuto” con la vecchia traduzione essa continua ad apparire nuova, e in molti casi — diciamo la verità — si fa fatica ad abituarsi alle nuove formulazioni. In ogni modo, va detto che non sono molti otto anni per conoscere a fondo le variazioni che sono state apportate. Sul blog mi sono occupato piú volte della nuova traduzione (si veda, per esempio, questo post del 2010); ma in questi anni ho continuato a passarne in rassegna pregi e difetti. A quale conclusione sono giunto? Beh, mi sembra di poter dire che si tratta sostanzialmente di una buona traduzione. Il suo pregio principale è che si sforza di essere fedele ai testi originali (ciò non significa che sempre ci riesca). Non condivido alcune scelte di fondo, in particolare quella di aver adottato il testo masoretico per la traduzione dell’Antico Testamento (ma capisco che si tratta di una scelta generalizzata, ritenuta ormai scontata, doverosa e in qualche modo inevitabile), specialmente nel caso del Salterio, dove una tradizione ininterrotta (che neppure Girolamo era riuscito a scalfire) aveva preferito rimanere sempre fedele alla Septuaginta. Certo, la precedente traduzione era una bella traduzione (vi avevano lavorato fior di italianisti), ma forse talvolta era piú bella che fedele. È ovvio che chi era cresciuto (o invecchiato) con essa, si era abituato, e forse anche affezionato, a certe espressioni e, vedendole ora mutate, inevitabilmente sia rimasto un po’ disorientato. È un fenomeno piú che comprensibile.

Un’altra premessa riguarda il concetto di “predilezione”. Lo Zingarelli la descrive come una «spiccata preferenza»; mentre per il verbo “prediligere” dà la seguente definizione: «Amare qualcuno o qualcosa piú d’ogni altra persona o cosa», e riporta, come sinonimo, “preferenza”. È evidente che nel concetto di “predilezione” è implicita una qualche comparazione. Si potrebbe avere l’impressione che si tratti di termini che vantano antiche e nobili origini; in realtà, se andiamo a cercare i termini praediligere, praedilectus, praedilectio in un dizionario latino, non li troviamo; neppure nel Forcellini (che pure ha l’ambizione di essere un Lexicon totius Latitinatis!). Troviamo il verbo praediligere solo nel Glossarium mediae et infimae Latinitatis del Du Cange (t. 6, Parigi, 1938, p. 457), che lo fa risalire al 1308. I dizionari italiani datano la prima attestazione sicura di prediligere/predilezione fra Cinque- e Seicento. Ancora oggi molte lingue moderne, che pure hanno il termine corrispondente al sostantivo (p. es., francese: prédilection; inglese: predilection), non dispongono di termini corrispondenti per il verbo (per cui si è costretti a usare una perifrasi) e per l’aggettivo (solitamente sostituito da “preferito” o “favorito”).

E ora veniamo a noi: qual è la traduzione piú corretta? Figlio amato o prediletto? Il testo originale greco del vangelo di Luca suona: Σὺ εἶ ὁ υἱός μου ὁ ἀγαπητός, ἐν σοὶ εὐδόκησα. In latino: «Tu es Filius meus dilectus; in te complacui mihi» (Lc 3:22). Identico il testo parallelo di Marco (1:11); leggermente diverso quello di Matteo (3:17): Οὗτός ἐστιν ὁ υἱός μου ὁ ἀγαπητός, ἐν ᾧ εὐδόκησα («Hic est Filius meus dilectus, in quo mihi complacui»).

Espressioni simili vengono usate nel caso della trasfigurazione: Mc 9:7 Οὗτός ἐστιν ὁ υἱός μου ὁ ἀγαπητός, ἀκούετε αὐτοῦ («Hic est Filius meus dilectus; audite illum»); Mt 17:5 Οὗτός ἐστιν ὁ υἱός μου ὁ ἀγαπητός, ἐν ᾧ εὐδόκησα· ἀκούετε αὐτοῦ («Hic est Filius meus dilectus, in quo mihi bene complacui; ipsum audite»); Lc 9:35 Οὗτός ἐστιν ὁ υἱός μου ὁ ἐκλελεγμένος, αὐτοῦ ἀκούετε («Hic est Filius meus electus; ipsum audite»). Come si può vedere, in questo caso Luca si discosta dagli altri due vangeli sinottici: anziché usare ὁ ἀγαπητός (= “l’amato”), usa ὁ ἐκλελεγμένος (“l’eletto”), un termine che ritroviamo nel contesto della passione: «Ha salvato altri! Salvi se stesso, se è lui il Cristo di Dio, l’eletto (ὁ ἐκλεκτός)» (Lc 23:35). Si tratta di un titolo ripreso dai canti del Servo del Signore: «Ecco il mio servo che io sostengo, il mio eletto (LXX: ὁ ἐκλεκτός μου) di cui mi compiaccio» (Is 42:1); «I re vedranno e si alzeranno in piedi, i príncipi si prostreranno, a causa del Signore che è fedele, del Santo d’Israele che ti ha scelto (LXX: ἐξελεξάμην σε)» (Is 49:7). Si noti che, nella festa del Battesimo del Signore, la prima lettura della Messa riprende il primo canto del Servo, mentre la prima lettura dell’Officium lectionis mette insieme il primo e il secondo canto.

C’è un altro contesto nel vangelo in cui ritroviamo l’aggettivo ἀγαπητός, la parabola dei vignaioli omicidi: «Ne aveva ancora uno, un figlio amato (υἱὸν ἀγαπητόν)» (Mc 12:6); «Manderò mio figlio, l’amato (τὸν υἱόν μου τὸν ἀγαπητόν), forse avranno rispetto per lui!» (Lc 20:13). Si noti che la vecchia traduzione della CEI, mentre nel caso di Marco traduceva: «Aveva ancora uno, il figlio prediletto», nel caso di Luca sorprendentemente traduceva: «Manderò il mio unico figlio». Sorprendentemente fino a un certo punto. Nel racconto del sacrificio di Isacco, per ben tre volte (Gen 22:2.12.16) si usa l’espressione “il tuo unico figlio” (1974) o “tuo figlio, il tuo unigenito” (2008). Ebbene, i Settanta traducono in tutti e tre i casi “unico/unigenito” (in ebraico: yaḥid) con… ἀγαπητός! Cosí facendo, al v. 2 (dove il testo originale dice: «Prendi il tuo unico figlio che ami») si finisce per cadere in una ridondanza del tutto pleonastica: Λαβὲ τὸν υἱόν σου τὸν ἀγαπητόν, ὃν ἠγάπησας (letteralmente, “Prendi il tuo figlio amato, che ami”). 

Un altro figlio amato — in questo caso davvero “prediletto” — che incontriamo nella Genesi è Giuseppe: «Israele amava (LXX: ἠγάπα) Giuseppe più (LXX: παρά; Volgata: super) di tutti i suoi figli» (Gen 37:3). Nel quarto vangelo invece troviamo il caso del “discepolo prediletto”, che la tradizione ha identificato con lo stesso evangelista Giovanni (Gv 13:23-25; 19:26-27; 20:2-10; 21:7.20-24). Qui però l’espressione “discepolo prediletto” l’abbiamo inventata noi: nel vangelo si parla sempre e solo del “discepolo che Gesú amava” (ὁ μαθητὴς ὃν ἠγάπα/ἐφίλει ὁ Ἰησοῦς).

Rimangono ancora due testi dove Gesú è definito “Figlio amato”: Ef 1:6 e Col 1:13. Il primo di essi nella vecchia traduzione suonava: «E questo a lode e gloria della sua grazia, che ci ha dato nel suo Figlio diletto»; nella nuova: «A lode dello splendore della sua grazia, di cui ci ha gratificati nel Figlio amato». La Volgata traduceva: «in dilecto Filio suo» (che si rifaceva al testo occidentale: ἐν τῷ ἠγαπημένῳ υἱῷ αὐτοῦ); la Neovolgata traduce ora semplicemente: «in Dilecto» (testo critico: ἐν τῷ ἠγαπημένῳ). Il secondo testo nella vecchia traduzione era cosí formulato: «È lui infatti che ci ha liberati dal potere delle tenebre e ci ha trasferiti nel regno del suo Figlio diletto»; nella nuova, piú fedelmente: «È lui che ci ha liberati dal potere delle tenebre e ci ha trasferiti nel regno del Figlio del suo amore». In latino (sia nell’antica che nella nuova Volgata): «in regnum Filii dilectionis suae» (greco: εἰς τὴν βασιλείαν τοῦ υἱοῦ τῆς ἀγάπης αὐτοῦ).

Al termine di questa lunga (e forse pesante, ma certamente utile) carrellata di testi, che cosa possiamo concludere? La nuova traduzione della CEI è senz’altro piú fedele all’originale: il Figlio ἀγαπητός non può che essere il Figlio amato. Nei testi non è sottintesa alcuna comparazione. Ma proprio perché è escluso qualsiasi confronto, non può che trattarsi di un amore unico. Come nel caso del fidanzamento, l’“amato” è uno solo: non c’è bisogno di dire che è il “prediletto”. Tale termine si può usare nel caso di piú figli (come nel caso dei figli di Giacobbe) o piú discepoli (come nel caso dei discepoli di Gesú): fra tanti, ce ne può essere uno che è prediletto, cioè preferito agli altri, amato piú degli altri. Ma nel caso del Figlio, del Figlio unigenito del Padre, che bisogno c’è di parlare di predilezione? Prediletto rispetto a chi, se è unico? Basta dire che è il Figlio amato. Significativo il fatto che i Settanta chiamino Isacco, anziché “figlio unico”, “figlio amato”: le due cose, evidentemente, coincidono.

Semmai, si potrebbe discutere se non fosse il caso di conservare il termine letterario “diletto” al posto del piú comune “amato”. La tendenza oggi diffusa è quella di tradurre la Bibbia “in lingua corrente”, perché cosí — si pensa — tutti possono capire meglio. Spesso si dimentica che, in qualche caso (ma non è questo il caso), si rischia anche di banalizzare. Esistono vari tipi di linguaggio: non è detto che si debba sempre usare il linguaggio ordinario: ci sono contesti in cui è opportuno adottare un linguaggio colto e piú ricercato, uno stile raffinato se non addirittura aulico. Uno di questi contesti è sicuramente quello religioso. Lo si è capito, finalmente, nella nuova traduzione del Messale in inglese: dopo la banalissima prima edizione, abbiamo ora una dignitosa ed elegante traduzione, che usa un inglese classico, certamente non incomprensibile, ma adatto al contesto liturgico. Forse, traducendo ἀγαπητός in italiano, si poteva conservare “diletto”, termine letterario che fa parte a tutti gli effetti del vocabolario italiano. Lo Zingarelli, come aggettivo, lo definisce: «Che è particolarmente caro e teneramente amato»; come sostantivo, «Persona amata». Esattamente ciò che la Scrittura intende con il termine ἀγαπητός.