lunedì 28 marzo 2016

La rivoluzione pastorale


A quanto è stato riferito, il 19 marzo scorso il Papa avrebbe firmato l’esortazione apostolica post-sinodale contenente i risultati degli ultimi due Sinodi dei Vescovi: la III assemblea generale straordinaria su “Le sfide pastorali sulla famiglia nel contesto dell’evangelizzazione” (5-19 ottobre 2014) e la XIV assemblea generale ordinaria su “La vocazione e la missione della famiglia nella Chiesa e nel mondo contemporaneo” (4-25 ottobre 2015). La pubblicazione è attesa per la metà di aprile.


Il 14 marzo il Card. Walter Kasper, nel corso di una conferenza tenuta a Lucca, ha annunciato: «Tra pochi giorni uscirà un documento di circa duecento pagine in cui Papa Francesco si esprimerà definitivamente sui temi della famiglia affrontati durante lo scorso sinodo e in particolare sulla partecipazione dei fedeli divorziati e risposati alla vita attiva della comunità cattolica. Questo sarà il primo passo di una riforma che farà voltare pagina alla Chiesa dopo 1700 anni». A leggere questo annuncio bomba del Cardinale tedesco, sembrerebbe di capire che l’esortazione apostolica costituirà uno “strappo” alla tradizione in materia di matrimonio e famiglia.


Il 19 marzo, vale a dire il giorno stesso della presunta firma del documento, il Prof. Alberto Melloni ha pubblicato su Repubblica un editoriale sull’argomento. L’esponente della “Scuola di Bologna” sembrerebbe rassicurarci: «Nessuna spaccatura. Ma una sintesi, tra rigoristi e progressisti. Francesco disorienta ancora una volta chi sperava di “incastrarlo” nel dibattito sinodale sulla famiglia e sulla comunione ai divorziati. O chi pensava di mettere in contraddizione, dentro il sinodo e nella platea dei fedeli, la supposta rigidità di una “dottrina” con una “apertura” che il Papa sintetizza nell’espressione “misericordia”. L’Esortazione post-sinodale su cui oggi Francesco apporrà la sua firma, conterrà proprio questa combinazione di elementi. E l’operazione di chi puntava su uno strappo è clamorosamente fallita». Si potrebbe eccepire: ma il Prof. Melloni che ne sa? Ma lasciamo perdere: da che mondo è mondo, c’è sempre stato qualcuno che, senza averne i titoli, risulta piú informato degli altri. Limitiamoci alle sue affermazioni, che sembrano fondarsi su una conoscenza non approssimativa del documento papale: non ci sarà alcuna rottura, ma ci troveremo di fronte a una superiore sintesi fra le diverse posizioni. Ah, beh, beh! Possiamo tirare un sospiro di sollievo: la rivoluzione è rimandata.

Se però proseguiamo nella lettura, il Professore aggiunge: «Il Pontefice, coerentemente con la riforma del linguaggio del pastorale e del dottrinale che è al cuore del concilio Vaticano II, pensa che una dottrina che non includa la misericordia sia solo una ideologia. E che una “apertura” che non abbia la pretesa di dire la verità che è la persona di Gesú Cristo, sia solo una operazione di marketing. Ha allora superato lo scoglio chiamando a responsabilità i vescovi a cui restituisce poteri effettivi, segnando, come ha detto il cardinale Kasper, una vera e propria “rivoluzione”». Sembrava che Melloni prendesse le distanze dalle anticipazioni di Kasper, e invece ecco che le conferma, arrivando al punto di parlare di una vera e propria “rivoluzione”. Sembrerebbe di capire che la rivoluzione consista nel restituire ai Vescovi “poteri effettivi”. Che significa? Che sulla questione dell’ammissione dei divorziati risposati alla comunione saranno i singoli Vescovi a decidere? È possibile; ma ciò non giustifica la frase del Cardinale: «Questo sarà il primo passo di una riforma che farà voltare pagina alla Chiesa dopo 1700 anni». Perché proprio millesettecento anni? Forse che millesettecento anni fa erano stati tolti ai Vescovi “poteri effettivi”? Non mi risulta. Se sottraiamo a 2016 millesettecento, otterremo 316, una data non particolarmente significativa. Nel 313 c’era stato l’Editto di Milano. Ma allora che voleva dire Kasper? Che finalmente è terminata l’era costantiniana? Non vedo che cosa c’entri. O non sarà forse un riferimento al 325, anno in cui si svolse il primo concilio ecumenico, quello di Nicea? Sí, ma che c’entra?

Rileggiamo con attenzione l’inizio del secondo paragrafo dell’editoriale del Prof. Melloni: «Il Pontefice, coerentemente con la riforma del linguaggio del pastorale e del dottrinale che è al cuore del concilio Vaticano II...». Ah, ecco, abbiamo forse trovato il bandolo della matassa: il Professore fa riferimento al Concilio e alla sua pretesa “riforma del linguaggio del pastorale e del dottrinale”. Il Vaticano II è stato il primo concilio pastorale della Chiesa; fino ad allora i concili erano stati o dottrinali o disciplinari. Certamente il primo di essi, il Concilio di Nicea, fu un concilio dottrinale. Ecco allora che si incomincia a capire perché dopo millesettecento anni la Chiesa volterà pagina: perché finalmente abbandonerà l’attitudine dottrinale, assunta a Nicea, per assumerne una nuova, completamente pastorale. Sí, ma questa svolta non era già avvenuta cinquanta anni fa, appunto con la celebrazione del primo concilio pastorale? No, perché quello fu solo un tentativo. Fallito. Si voleva fare un nuovo tipo di concilio, pastorale appunto, per rompere con la tradizione plurisecolare della Chiesa; Papa Giovanni, ingenuamente, senza rendersi conto della manovra, abboccò; ma provvidenza volle che non potesse portare a termine il Concilio; il testimone passò a Paolo VI, il quale, senza sconfessarne l’iniziale fisionomia pastorale, diede al Concilio una chiara impronta dottrinale, seppure un po’ sui generis

La svolta, che doveva avvenire — ma non avvenne — cinquant’anni fa, a quanto pare, si realizzerà con l’esortazione apostolica post-sinodale di Papa Francesco: al centro di essa evidentemente non saranno piú le questioni dottrinali, come era avvenuto finora, ma esclusivamente l’attenzione, tutta pastorale, per la situazione concreta in cui si trovano gli uomini del nostro tempo. Se cosí è, si può parlare di una vera e propria “rivoluzione”? Sarebbe una rivoluzione se si manomettesse la dottrina; ma, visto che la dottrina non viene toccata, che male c’è a fissare l’attenzione sui problemi concreti della vita di ogni giorno?

E invece si tratta proprio di una rivoluzione, perché non tocca questo o quel punto della dottrina (in tal caso sarebbe, semplicemente, un’eresia), ma consiste in un cambio radicale di atteggiamento, di prospettiva: una vera e propria “rivoluzione copernicana”. È vero che la dottrina non viene toccata; ma semplicemente perché non interessa piú: è inutile; peggio, dannosa. Avete sentito il Prof. Melloni: «Il Pontefice … pensa che una dottrina che non includa la misericordia sia solo una ideologia». La dottrina è tendenzialmente ideologica; la dottrina divide, provoca le guerre di religione; la dottrina è l’arma di cui si servono i dottori della legge, gli scribi e i farisei per giudicare e condannare. Meglio dunque preoccuparsi della vita concreta, incontrare le persone nella loro condizione reale, cercare ciò che unisce, collaborare con tutti, a prescindere dalle differenze che ci distinguono. Questo atteggiamento può essere definito, appunto, “pastorale”. 

Bisognerebbe che qualcuno, prima o poi, si decidesse a fare la storia di questo nuovo orientamento della Chiesa. Giustamente Mons. Brunero Gherardini, nella sua conferenza al convegno sul Vaticano II (16-18 dicembre 2010), paragona la pastorale all’Araba Fenice (“che vi sia ciascun lo dice, dove sia nessun lo sa”), ma poi non ricostruisce l’origine e il successivo sviluppo storico del nuovo approccio pastorale della Chiesa. A me sembra, ma potrei sbagliarmi, che esso sia in qualche modo connesso con l’influsso della filosofia moderna sulla teologia cattolica, in modo particolare da parte dell’idealismo e del marxismo. Questo è particolarmente evidente nella teologia della liberazione e nella teologia politica, dove viene chiaramente dichiarato il primato dell’ortoprassi sull’ortodossia (su tale contrapposizione si vedano l’istruzione della CDF su alcuni aspetti della “teologia della liberazione” Libertatis nuntius del 6 agosto 1984, parte X, n. 3, e la conferenza del Card. Joseph Ratzinger tenuta in Messico nel maggio 1996, in particolare il quinto paragrafo); ma potrebbe aver determinato anche il nuovo orientamento pastorale. L’argomento, ovviamente, andrebbe approfondito. In ogni caso, un dato è certo: non ci troviamo di fronte a un atteggiamento ideologicamente neutro e spiritualmente innocuo; esso è portatore di una carica fortemente ideologica. La dottrina può, certo, trasformarsi in ideologia (quando, da descrizione oggettiva della realtà, quale dovrebbe essere, si risolve in teoria astratta che tenta di imporsi alla realtà); il primato dell’ortoprassi sull’ortodossia è, in sé, ideologia allo stato puro.

Non sta a me emettere giudizi, ma ho l’impressione che ci troviamo di fronte all’ultimo tentativo di assalto alla Chiesa da parte del modernismo. Finora il modernismo non era riuscito a imporsi, perché si era sempre mosso su un piano dottrinale, e su questo piano risultava relativamente facile alla Chiesa individuare le eresie e condannarle. Ecco allora che, nel corso del Novecento, il modernismo ha cambiato strategia (evolvendosi cosí in “neomodernismo”): se continuiamo ad attaccare la dottrina, non andremo da nessuna parte; la dottrina lasciamola cosí com’è; semplicemente, ignoriamola; perseguiamo i nostri obiettivi percorrendo un’altra strada, la via pastorale. Per motivi pastorali, è possibile fare tutto ciò che la dottrina proibisce. Una volta ammesso ciò che finora era proibito, a poco a poco, diventerà scontato e pacificamente accettato da tutti; la dottrina rimarrà un’anticaglia del passato, da conservare in museo, sotto una campana di vetro. E la rivoluzione è fatta. Senza spargimento di sangue.

domenica 27 marzo 2016

«Semper vivit occisus»



“Our paschal lamb, Christ, has been sacrificed.” It might seem strange that the liturgy, on Easter Sunday, makes us read in the second reading this text by Saint Paul. It would be more suitable for Good Friday! 

Paul is comparing Christ with the lamb that the Israelites had slaughtered when they had been delivered from Egypt’s slavery. If you remember, they had applied some of the blood of that lamb to the doorposts of their houses, so that the angel, who should exterminate the firstborns of the Egyptians, seeing that blood, would pass over the houses of the Israelites. These, as a memorial to the event, every year, on Passover, would sacrifice and eat a paschal lamb. Well, Saint Paul says that Jesus is our paschal lamb, who by his blood delivers us from the slavery of sin. But this is exactly what happened on Good Friday: it is on that day that Jesus was sacrificed and shed his blood for our salvation. Today, instead, we commemorate his resurrection. Have the liturgists made a mistake putting this text in the Mass of Easter Sunday?

No, it is no mistake. If you have noticed, even in the Alleluia the same text has been quoted. During the Easter Time we will repeat every day in the preface before the Eucharistic Prayer: “Christ our Passover has been sacrificed.” It seems as if that verse is the essence of Easter. The reason is that we are celebrating the paschal mystery; and the paschal mystery has two aspects inseparable from each other: the death and the resurrection of Christ. They are like the two sides of the same coin. Historically, they are two different events: Jesus first died on the cross and, on the third day, he rose again from the dead; but the mystery is only one. And if it is true that Jesus is not dead, but alive, this does not mean that his death was a pretense: Jesus really died, and he keeps the signs of his passion even after his resurrection. When the risen Lord appears to his disciples, he shows them his hands and his side, that is, his wounds. By now the sores of his passion belong to him forever. 

In one of the Easter prefaces we say: “He is the sacrificial Victim who dies no more, the Lamb, once slain, who lives forever.” This text, attributed to Saint Peter Chrysologus, in the Latin original is “semper vivit occisus” (literally, “he lives forever slain”); it could seem a contradiction: he either is dead or alive. Instead he is, at the same time, the “living Crucified.” It is a mystery, but it is the center of our faith. And that is valid not only for Jesus, but even for us. If we want to live, we have to die: we can find life only in the cross; only through passion we can attain the glory of resurrection.

domenica 20 marzo 2016

«Jesu, memento mei»



We have four gospels, each of them with its own features. The gospel of John is the most different from others; Matthew, Mark and Luke are very similar among them and are called “synoptic.” If there is a section where the four gospels resemble each other to a greater extent, that is the passion narrative. And yet, even in this case each gospel keeps its own character. We are accustomed to listen every year to the different accounts of Jesus’ passion; and so we are not able to distinguish what each evangelist tells us; we often confuse the information we find in a gospel with the one we find in another. That is why I would like briefly to highlight the main points characteristic of Luke: Jesus’ farewell discourse during the last supper;  his appearance before Herod during his trial; his meeting with the women of Jerusalem on the way to Calvary; and finally the episode of the good thief.

Since we are in the Jubilee Year of Mercy, it can be useful to linger for a little while on this last scene. Jesus is crucified in the midst of two criminals. One of them defies him: “Are you not the Messiah? Save yourself and us.” The other one rebukes him, acknowledges his own guilt, recognizes the innocence of Jesus and then turns to him as his last chance: “Jesus, remember me when you come into your kingdom.” In this short appeal there is all that is necessary to attain salvation. 

First of all the good thief addresses Jesus not with a title, but with his proper name, which means, if you remember, “God saves.” Peter will say before the Sanhedrin: “There is no other name under heaven given to men by which we are to be saved” (Acts 4:12). We have heard in the second reading that “God greatly exalted him and bestowed on him the name which is above every name, that at the name of Jesus every knee should bend, of those in heaven and on earth and under the earth.” It is enough to call upon the name of Jesus to be saved.

The good thief asks Jesus to remember him. It was a common prayer among the Jews on their death-bed. It is a very humble prayer. He does not demand anything extraordinary; he just begs: “Remember me; do not forget me.” It is enough.

Finally, the good thief recognizes Jesus as a king, as the awaited Messiah of Israel, the one who should come to save his people: “Jesus, remember me when you come into your kingdom.” It is an act of faith in Jesus. It is this faith that cancels in a moment all his sins and gains to him access to that kingdom. And Jesus passes his judgment: “Amen, I say to you, today you will be with me in Paradise.”

mercoledì 16 marzo 2016

Il sorriso della Santa


Nel corso del Concistoro che si è svolto ieri, il Papa ha decretato che cinque Beati siano iscritti nell’Albo dei Santi. Fra questi la Beata Teresa di Calcutta (al secolo: Agnese Gonxha Bojaxhiu), che sarà canonizzata domenica 4 settembre 2016.

Mi è tornato in mente un articolo che avevo scritto per l’Eco dei Barnabiti nel 2003, in occasione della sua beatificazione. Riprendeva il titolo di un racconto di Giovanni Papini, che avevo letto quando frequentavo la scuola media. Era tratto da una raccolta curata dalla figlia dello scrittore, Viola Paszkowski Papini, Il muro dei gelsomini, SEI, Torino, 1957. Ritrovo ora in rete la copertina dell’edizione da me usata a scuola. Ho ritrovato pure “Il sorriso della Santa” — ripreso dall’opera Passato remoto (1948) — dove si narra l’incontro del giovane Papini con la giovane Teresa Martin, futura Teresa di Gesú Bambino. Riporto prima il racconto di Papini, perché possiate gustarlo anche voi, e subito dopo il mio articolo del 2003.


Uno dei ritrovi giornalieri di noi ragazzi fiorentini era il giardino D’Azeglio. Una mattina d’autunno andavo, secondo il solito, verso quel giardino, ma, giunto in via della Colonna, m’ero soffermato a una vetrina di cartolaio a ustolare [= guardare con bramosia] certi francobolli esotici che mancavano alla mia scarna collezione.

In quel mentre sentii dietro di me voci straniere. Mi voltai: un signore e una signora accompagnati da una giovinetta, tutti e tre dall’aspetto forestiero, stavano interrogando un passante che, a quanto mi parve, non sapeva insegnare ciò che gli veniva domandato. Mi avvicinai di un passo, con l’improntitudine propria dei ragazzi, e sentii che la giovinetta ripeteva, con accento tutt’altro che toscano, ma chiaro, un nome fiorentinissimo: Santa Maria Maddalena dei Pazzi. Capii subito quel che cercavano, e siccome l’interpellato, un vecchio lindo con gli occhiali, non sapendo cosa rispondere, andava garbatamente scusandosi e stava per allontanarsi, mi feci innanzi e mi offrii per accompagnare quegli impacciati stranieri alla chiesa di Santa Maria Maddalena dei Pazzi, che era lí vicina in Borgo Pinti. Non conoscevo quella chiesa per motivi di devozione, ma perché, a differenza di altre, aveva dinnanzi un bell’atrio arioso, mezzo chiostro e mezzo giardino, una specie di pronao fiorito, dove talvolta mi davano appuntamento certi compagni della scuola che era lí accanto.

I tre forestieri ebbero fiducia in me e mi vennero dietro. Erano vestiti di scuro, e mi parvero gente semplice, seria, molto diversa da quegli inglesi ricchi e sicuri che a Firenze si sentivano in casa propria. Io sbirciai la giovinetta, che pareva la piú impaziente di giungere alla chiesa. Poteva avere 14 o 15 anni; il volto era pienotto, tondeggiante, illuminato da occhi dolci, ardenti, profondi, che mi fecero tale impressione da fare abbassare i miei. Si giunse, in pochi passi, al portale esterno della chiesa, e io feci cenno con la mano che erano arrivati. Il padre e la madre, insieme, dissero piú volte: Merci, merci. La giovinetta non disse nulla, ma, quasi per ringraziamento, mi rivolse un cosí bel sorriso, che turbò stranamente il mio cuore di fanciullo timido. Poi i tre entrarono nell’atrio pieno di sole e di fiori, e io me ne andai verso il giardino D’Azeglio.

Molti e molti anni dopo, un amico prete mi dette da leggere una biografia di Santa Teresa di Lisieux, e appresi, con meraviglia, che proprio nell’autunno del 1888, quando le carmelitane rifiutarono di accoglierla novizia perché non aveva ancora l’età prescritta, essa aveva pregato i genitori di condurla in Italia, per chiedere a Leone XIII la grazia di una speciale dispensa. E lessi, con trepida meraviglia, che si era voluta fermare a Firenze, con l’unico scopo di recarsi a pregare sulla tomba di Santa Maria Maddalena dei Pazzi, che si era trovata, a suo tempo, nel suo medesimo caso.

Ho pensato, qualche volta, di essere stato illuso da un inganno della memoria, ma sono ormai persuaso che la giovinetta che quella lontana mattina d’autunno mi aveva cosí soavemente sorriso era stata la futura Teresa del Bambin Gesú. I ritratti di lei fanciulla che erano in quel libro combaciavano con il mio ricordo, non affievoliti dagli anni. L’incontro con quei tre stranieri mi era rimasto lungamente impresso: la memoria, a quell’età, è tenacissima.

E spesso mi vien fatto di pensare, perdoni Dio questo pensiero, se è figlio di superbia, che il sorriso di Santa Teresa mi abbia accompagnato, senza che io lo sapessi, fino ai misteriosi giorni di una piú potente Grazia.


Fin qui Papini. Ecco ora invece il mio articolo scritto per la beatificazione di Madre Teresa.


Quando frequentavo la scuola media, al “Virgilio” di Roma (siamo negli anni Sessanta), non ricordo se in seconda o in terza, avevamo un libro di lettura di Giovanni Papini, dal titolo Il muro dei gelsomini. Uno dei racconti, per lo piú autobiografici, lí riportati era intitolato “Il sorriso della Santa”. Narrava dell’incontro di Papini ragazzo con Teresa Martin (la futura Teresa di Gesú Bambino) avvenuto a Firenze, dove la Santa di Lisieux si era recata con la sua famiglia a visitare la tomba di Santa Maria Maddalena de’ Pazzi, durante il suo viaggio in Italia del 1887. Il Papini, che non sapeva chi fosse quella ragazza (lo avrebbe scoperto solo molti anni piú tardi) rimase profondamente colpito dal sorriso che le fece Teresa, il sorriso di una santa. Io fui molto impressionato da quel racconto, tanto che all’esame di licenza media, quando la professoressa di italiano mi chiese di parlarle di un racconto de Il muro dei gelsomini, senza esitazione cominciai a riferire de “Il sorriso della Santa”.

Il Cielo ha voluto che io stesso, a distanza di anni, facessi un’esperienza simile a quella di Papini, con un’altra Teresa, Madre Teresa di Calcutta (che — giova ricordarlo — assunse questo nome proprio in onore della Carmelitana di Lisieux). Era il 1987 (cento anni dopo l’incontro di Papini con Teresa Martin!). In quel periodo mi trovavo a Bologna, “cappellano” (vale a dire vicario parrocchiale) di San Paolo Maggiore. Frequentavo l’Università per laurearmi in filosofia. In quegli anni ricorreva il nono centenario dell’Università di Bologna; il Rettore, il Prof. Fabio Roversi Monaco (massone dichiarato, ma illuminato) aveva deciso di conferire tutta una serie di lauree honoris causa per solennizzare l’evento: erano stati già laureati il Re di Spagna, il Principe Carlo d’Inghilterra, Raoul Gardini, eccetera. I Cattolici popolari, polemicamente, lanciarono la proposta: perché non viene conferita la laurea anche al Papa [Giovanni Paolo II] e a Madre Teresa di Calcutta? Il Rettore, intelligentemente, rispose: E perché no? Della laurea al Papa non se ne fece poi nulla: essa si trasformò in una indimenticabile visita all’Università, con la “promulgazione accademica” del nuovo Codice di diritto canonico. In settembre invece ci fu il conferimento della laurea a Madre Teresa. La sua visita a Bologna durò un paio di giorni. Io la seguii in tutti i suoi spostamenti. Arrivò la sera del 25 e ci fu subito l’incontro con i giovani in Piazza Santo Stefano. Ricordo ancora le sue parole, in un inglese per nulla difficile a intendersi: parole semplici, tratte dal vangelo, ma che si fissarono nella mente e nel cuore. All’indomani mattina la cerimonia della laureatio. Non era facile potervi partecipare, dal momento che si sarebbe svolta nell’antica sede dello Studio bolognese, l’Archiginnasio. Attraverso i miei amici “ciellini” riuscii ad avere un biglietto e potei cosí presenziare alla cerimonia, dove risaltava il contrasto fra i docenti in pompa magna, paludati con la loro toga, e l’umile suorina con il suo povero sari bianco-celeste; i discorsi ufficiali delle autorità accademiche e l’inconsueta lectio magistralis della neo-laureata, che non fece altro che ripetere i medesimi concetti della sera precedente nel suo inglese facile-facile. Al termine della cerimonia si formò il corteo delle autorità e dei docenti che accompagnavano Madre Teresa non so dove. Io mi appostai in un corridoio dove doveva passare il corteo: quando lo vidi arrivare rimasi impressionato dalla statura di Madre Teresa: l’avevo vista tante volte in televisione, ma non mi ero mai reso conto di quanto fosse minuscola. Quando finalmente arrivò in prossimità del luogo dove mi trovavo, mi avvicinai, mi piegai verso di lei, le afferrai l’esile mano e le dissi: «Pray for us!». Madre Teresa mi guardò e, senza nulla dire, mi fece un sorriso ampio (come solo lei era capace di fare), un sorriso che rimarrà scolpito nella mia mente e nel mio cuore per tutto il resto dei miei giorni. Da quel volto invecchiato e pieno di rughe, si sprigionò una luce e una bellezza, che non ho mai visto in altre occasioni nella mia vita: un sorriso proveniente dal cielo, il sorriso di una santa.

La sera di quello stesso giorno, poi, Madre Teresa fu invitata a uno spettacolo organizzato dalla diocesi di Bologna in occasione del Congresso eucaristico diocesano, uno spettacolo che fu trasmesso dalla televisione a livello nazionale (Don Vecchi, l’organizzatore, stava evidentemente “facendo le prove” per il congresso eucaristico di dieci anni dopo, che sarebbe stato un congresso nazionale, con tanto di concerto rock e di partecipazione papale). Anche nello spettacolo serale risaltava il contrasto fra gli attori, i cantanti e le ballerine scollacciate sul palco e l’umile suorina che, in platea, un po’ assente, continuava a sgranare la sua corona del rosario. Quando, al termine dello spettacolo, salí sul palco ci fu una standing ovation, a cui non ho mai assistito in altre occasioni: tutta la platea si levò in piedi e la applaudí per oltre cinque minuti di orologio: un applauso interminabile, giusto riconoscimento per quanto la minuscola religiosa albanese-indiana stava facendo per l’umanità.

Il 19 ottobre scorso [2003] l’umile suorina è stata elevata agli onori degli altari: una folla immensa (sicuramente piú di trecentomila persone) ha gremito Piazza San Pietro e le vie adiacenti per partecipare a un evento storico. Dopo che il Papa ha terminato con voce stanca la formula di beatificazione, mentre la Cappella Sistina insieme ai fedeli cantavano l’Amen di approvazione, è stato scoperto il drappo che pendeva dalla loggia centrale della basilica vaticana: è cosí riapparso il volto sorridente di Madre Teresa e gli occhi di tutti si sono bagnati di commozione di fronte a quel sorriso, il sorriso di una santa.

domenica 13 marzo 2016

«Vade et amplius iam noli peccare»



This year we are reading the gospel of Saint Luke. How come today’s liturgy makes us read a passage from John’s gospel? We must say that the story of the adulteress is a very unusual passage: we now find it in John, but it is missing from all early manuscripts of this gospel; while it is present in some manuscripts of Luke’s gospel. Actually, the style and the motifs of this account are more similar to those of Luke than to those of John. Maybe for this reason the liturgy has chosen it as the last of the three texts about conversion that we are reading during this Lent.

The scribes and the Pharisees put Jesus to the test. They bring him this woman caught in adultery and remind him of Moses’ law, according to which adulterous women should be stoned. That is not entirely true, because the law commanded to put to death not only the woman but both the adulterer and the adulteress. But, we know, women are usually those who pay both for their own and for men’s mistakes. We do not know if in Jesus’ times the Jews still had the power to execute those sentenced to death. If you remember, during Jesus’ trial, when Pilate said to the crowd: “Take him yourselves, and judge him according to your law,” the Jews answered: “We do not have the right to execute anyone.” On the other hand, though, we find in the Acts of the Apostles that the Jews stoned Stephen without any permission from the Romans. Anyway, if the Jews had been deprived of the right to carry out the death penalty, you see that the trap the scribes and the Pharisees set for Jesus is very similar to the one that they had laid for him when they asked him if it was lawful to pay the tribute to Caesar or not. So, in this case, if Jesus answers that the adulteress is not to be stoned, he goes against Moses; if he answers that she is to be stoned, he could be reported to the Roman authorities for subversion.

Jesus does not fall into the trap. He first tries to disregard the question, and starts to write on the ground with his finger. Somebody produces this text as evidence that Jesus knew how to write; but this is not the point. Others wonder what Jesus was writing. A lot of hypotheses have been formulated. One is interesting, because we find it in a variant of the gospel text: “He wrote on the ground the sins of each of them.” But even in this case it is better not to ask such questions and be content with what the gospel actually says. Since the scribes and the Pharisees keep on asking him, Jesus is forced to answer. And he does it in his own way: “Let the one among you who is without sin be the first to throw a stone at her.” He thus escapes the trap: he does not reject Moses’ law; he just asks who of them is in a position to carry out that law. So, he unmasks their hypocrisy, and they are forced to desist. 

Up to now the adulteress had remained there, in the middle, without saying a word. Nobody cared about her. She was just an instrument used by the scribes and the Pharisees to ensnare Jesus. Now she remains alone with Jesus; and now she becomes a person. Jesus does not demand a public confession: her sin is already public. He knows what is in her heart; there is no need of showing it outwardly. For the woman it is enough to be in front of Jesus: his presence is sufficient to heal her. Before Jesus, sin melts like snow at the rays of the sun. There is just need of a warning: “Go, and from now on do not sin anymore.” Sin is always in ambush, and we can relapse into it. We should be always watchful so as to avoid it.

For Jesus it is important to add that invitation after saying: “I do not condemn you.” It is true: he has not come to condemn the world but to save the world. But this does not mean that there is no sin; that we can freely sin without qualms, because we will be eventually forgiven, regardless of our repentance. Sin exists; it is a serious thing, and we have to take it seriously. We have to be afraid of it, because it could kill us; but without despairing, because there is One who can free us from it. We must be confident in his mercy, but we cannot fool him: to merit his compassion, we have to show him our detachment from sin. Weak as we are, we can relapse into sin, but always acknowledging our sinfulness and confessing our need for his mercy.

venerdì 11 marzo 2016

I miei angeli



Una settimana fa venivano barbaramente assassinate ad Aden, nello Yemen, quattro Missionarie della Carità, Sr. Anselm, Sr. Judit, Sr. Marguerite e Sr. Reginette. Ci si è giustamente lamentati che la notizia non abbia avuto l’eco che avrebbe meritato sui mezzi di informazione. Ma c’è da meravigliarsi? C’è ancora qualcuno che crede all’indipendenza e all’obiettività della stampa? È ovvio che “passano” solo le notizie funzionali agli interessi dei poteri che controllano le varie catene mediatiche. Si fosse trattato di un nuovo caso di pedofilia ecclesiastica, ci avrebbero ricamato sopra per settimane; ma sono morte solo quattro suorine, per di piú nere: che volete che sia? con tutti i morti che ci sono ogni giorno in quei paesi, volete che interessi a qualcuno? No, non deve interessare a nessuno. Per fortuna, ci sono ancora alcuni canali di informazione che riescono a sfuggire, almeno parzialmente, alla censura. Beh, attraverso quei canali, la notizia della morte delle Suore di Madre Teresa è giunta a chi doveva giungere e direi che ha avuto anche la risonanza che meritava.

Anche nella piccola comunità cristiana di Kabul, naturalmente, la notizia ha fatto impressione. Non solo perché ci troviamo in una situazione analoga (pochi cattolici immersi in una realtà islamica al 100% e con una guerra civile in corso), ma anche perché qui pure c’è una piccola comunità di Missionarie della Carità, con una composizione molto simile a quella delle religiose trucidate nello Yemen: una ruandese, una keniota, una indiana e una filippina. E anche loro esposte a possibili attacchi, non certo da parte della povera gente che aiutano, ma da parte di gruppi che usano l’Islam esclusivamente come paravento per i loro obiettivi politici.

Non sono le uniche religiose presenti nella nostra Missione: oltre loro, ci sono altre due piccole comunità che, con la loro semplice e disinteressata testimonianza, rendono presente la Chiesa in un ambiente, almeno apparentemente, del tutto impermeabile al cristianesimo. Impossibilitato come sono a svolgere qualsiasi tipo di attività pastorale esterna, queste suore sono le mie braccia e i miei piedi; meglio, i miei “angeli”. Ovviamente, anche a loro è interdetto qualsiasi tipo di “proselitismo”; ma non è per questo che sono qui: sono venute per servire Cristo negli ultimi, negli scarti della società, in quelli di cui nessuno si prenderebbe cura. E il loro lavoro è molto apprezzato, non solo dalla gente comune, ma dallo stesso governo. E io sono onorato di essere qui a loro servizio: di poter annunciare loro la parola di Dio, di poter celebrare per loro l’Eucaristia, di poter dare loro l’assoluzione. Se volete, un lavoro di retroguardia il mio, ma prezioso per chi si trova sulla breccia a combattere ogni giorno la buona battaglia. Qualcuno potrebbe pensare: ma chi ve lo fa fare? a che serve star lí a rischiare la pelle, quando non c’è alcuna prospettiva di evangelizzazione e di sviluppo per la Chiesa? Potrei rispondere con San Paolo: Caritas Christi urget nos.

La tragica morte delle quattro Missionarie della Carità mi ha ispirato alcune riflessioni, senza alcuna pretesa, che vorrei condividere con voi.

1. La Chiesa di oggi è una Chiesa dei martiri. Può sembrare strano: ci lamentiamo tutti dello stato comatoso in cui versa la Chiesa odierna; abbiamo l’impressione che si stia approssimando al suo definitivo tramonto; eppure mai come oggi (forse neppure nei primi secoli) ci sono tanti cristiani che versano il sangue per la loro fede. Ci si aspetterebbe che solo una Chiesa forte possa esprimere dei martiri; e invece… Ma la cosa non deve meravigliare piú di tanto, perché è sempre stato cosí. Ricordo il compianto Padre Fasola, che ci spiegava il motivo per cui il martirio della piccola Agnese ebbe, a suo tempo, tanta risonanza: perché praticamente salvò, col suo sangue, una Chiesa Romana altrimenti destinata a scomparire. Le piccole “Agnesi” dei nostri giorni forse, col loro sacrificio, salveranno una Chiesa che pare aver perso la bussola in un mondo che, a sua volta, sembra completamente impazzito.

2. Questa Chiesa dei martiri è la Chiesa uscita dal Vaticano II; non è una Chiesa preconciliare (con ciò non voglio contrapporre una “nuova” Chiesa alla Chiesa dei secoli passati: la Chiesa del Vaticano II è la Chiesa di sempre, che ha giusto fatto alcuni ritocchi esteriori lasciando immutato il patrimonio che le è stato trasmesso). Con tutto il rispetto per il rito tridentino e per i fedeli che, legittimamente, continuano a frequentarlo, le Suore di Madre Teresa partecipano ogni giorno alla Messa Novus Ordo, e a questa attingono la forza che permette loro di svolgere il loro umile lavoro e di… affrontare il martirio (quando esse arrivarono in Afghanistan, dieci anni fa, posero due condizioni: poter avere la Messa quotidiana e poter vestire il loro abito). Dico questo perché ci sono ancora alcuni che nutrono il dubbio che la nuova liturgia non sia del tutto valida o almeno legittima (in uno dei suoi ultimi Commenti Eleison Mons. Williamson sosteneva che i Vescovi e i sacerdoti ordinati con il nuovo rito andrebbero cautelativamente riordinati sub conditione!); pensano che la Chiesa del Vaticano II non possa produrre santi. E invece le quattro suorine martiri dimostrano che la grazia di Dio è ancora alla portata di tutti nella Chiesa d’oggi: basta mettersi nella condizione di riceverla.

3. Questa Chiesa dei martiri non è la Chiesa europea o americana (e neppure quella, tanto esaltata, latinoamericana), che sembrerebbe aver perso la testa rincorrendo il mondo; ma la Chiesa “di periferia”, non tanto quella delle baraccopoli ai margini delle grandi città, che fa tanto chic oggigiorno, quanto piuttosto quella dei paesi dimenticati da tutti, utili solo per essere sfruttati economicamente, politicamente e strategicamente, i paesi africani e asiatici. Un tempo, almeno finché questi popoli furono considerati “sottosviluppati”, era tanto di moda parlare di Africa e Asia; ora che essi hanno cominciato a farsi sentire, ci siamo accorti che anche loro hanno una testa, che però non sempre condivide le nostre ideologie; e perciò abbiamo iniziato a guardarli dall’alto in basso (ricordate la reazione del Card. Kasper durante il dibattito acceso in occasione dei due ultimi Sinodi?). Ed è proprio in questi paesi che la Chiesa sta avendo una inattesa fioritura. La stragrande maggioranza delle Missionarie della Carità (ma non solo) proviene dalle giovani Chiese (ve la immaginate voi una delle nostre ragazze che si mete a fare il lavoro delle Suore di Madre Teresa?). Questo non significa che i cristiani africani e asiatici siano tutti santi: sono peccatori come noi, e forse piú di noi. Non avranno la cultura che abbiamo noi; ma hanno una cosa che noi abbiamo perso: la fede. Ed è questa fede, semplice e incrollabile, che permette loro di dedicare l’intera vita al servizio dei “piú poveri fra i poveri” e, se necessario, a sacrificarla per Cristo. Mentre in Occidente i cristiani si baloccano con la comunione ai divorziati risposati, l’abolizione del celibato dei preti e il sacerdozio (o almeno, suvvia, il cardinalato) alle donne, grazie a Dio nel resto del mondo ci sono cristiani che, in silenzio, servono gli ultimi e versano il sangue per la loro fede. Dio li benedica!

domenica 6 marzo 2016

«Epulari et gaudere oportebat»



We have reached mid-Lent. This Sunday is traditionally named Lætare, from the first word of the Entrance Antiphon: “Rejoice, Jerusalem.” On this Sunday fast was formerly broken. As you can see, even the color of the liturgical vestments is not the penitential purple, but the joyful rose. At the same time, today’s liturgy keeps on exhorting us to conversion. Paul’s appeal has resounded in our ears: “We implore you on behalf of Christ, be reconciled to God.”

Today’s gospel portrays the process of this conversion. Jesus tells us one of his parables about mercy. It is the famous parable of the prodigal son. Many people have proposed a different title for it: “The lost son,” “The found son,” “The two sons,” “The merciful father,” “The finding celebration.” You see from how many points of view we can consider this parable: they are all legitimate. We can fix our attention on the younger son, on the older son, on both of them, on the father, on his goodness in welcoming his wayward son, on his joy in finding his lost son.

Since this passage today is offered to us as an appeal for repentance, perhaps it is better for us to focus upon the prodigal son, to see in him the icon of our departure from God, through sin, and our homecoming, through conversion. What leads the younger son to leave his father’s house? Maybe a desire for freedom, a wish to feel adult, totally independent and self-sufficient. But the best of it is that, to do this, he first claims from his father the share of his estate. He does not care about his father, but he demands his inheritance. The father just comes in useful for his estate. The father respects his son’s freedom; the only thing he can do is to wait. We know how the story ends up. At that point, the gospel tells us that the young man comes to his senses and decides to go back to his father. Is he really contrite? It is not so clear: he does not miss his father; he just looks back with nostalgia on the comforts he had at home; what matters for him is to fill his stomach. What we usually consider an expression of profound humility—“I no longer deserve to be called your son; treat me as you would treat one of your hired workers”—might just be a sign of indifference to his own sonship: “Who cares if I am no more a son? What matters is to have something to eat.” It seems that he does not really deserve his father’s pardon. And yet for the father that partial repentance is enough. His mercy is greater not only than his son’s sin, but even than his defective regret. He first runs to his son, embraces him and kisses him: he thus demeans himself in front of his son; such a behavior is undignified for an elderly Oriental gentleman. He then restores his son to all his rights: the robe, the ring and the sandals are tokens of freedom and authority. Finally, he throws a party for all: the fattened calf is enough to feed the whole village; everybody has to share his joy.

That is exactly what happens when we sin and then repent. We want to be free, but exploiting the gifts of God. Then, when we realize our foolish mistake, we repent, maybe more for personal interest than for true regret. But it does not matter: for God it is enough. The Church calls this imperfect contrition “attrition”: according to the Catechism, it is also a gift of God, a prompting of the Holy Spirit, because it initiates an interior process which can bring, through confession, to full reconciliation. God is content with little: it is enough for him if we feel just a touch of nostalgia. As for the rest, he will see to it.

Then there is the older son, who does not want to participate in his father’s joy. He is like the scribes and the Pharisees who complained that Jesus welcomed sinners and ate with them. He is no better than his younger brother. He has not left his father; he has remained with him, but without appreciating his presence, his love and even his goods. He stays at home not as a son, but as a servant. He has everything at his disposal; he also has received the share of his father’s estate; and yet he complains that his father has never given him a young goat to feast on with his friends. He also needs conversion; perhaps more than his brother. 

With which of the two sons shall we identify? Maybe with both of them. In any case, we need to repent and to go back to God, who is waiting for us.

mercoledì 2 marzo 2016

Concilio e “spirito del Concilio” 2.0



Nello stendere il post di una settimana fa (“Formidabili quegli anni”), dove parlavo della grande nostalgia per il Concilio e gli anni immediatamente successivi da parte di molti che oggi occupano posti di responsabilità nella Chiesa, mi era venuto in mente che forse fosse il caso di riprendere il discorso sul Vaticano II, con cui questo blog era nato (si vedano le riflessioni contenute nel primo post del 30 gennaio 2009 Concilio e “spirito del Concilio”). In questi giorni poi mi è capitato di leggere un articolo su un altro blog (Campari & de Maistre), nel quale si fanno alcune valutazioni sul Concilio, sostanzialmente condivisibili, che mi hanno persuaso a riprendere la riflessione che era rimasta sospesa sette anni fa.

Va, innanzi tutto, premessa una domanda: interessa ancora a qualcuno, oggi, una riflessione sul Vaticano II? Tale riflessione era stata avviata dieci anni fa, in occasione del quarantesimo anniversario della conclusione del Concilio, dal discorso di Benedetto XVI alla Curia Romana (22 dicembre 2005). Il Papa aveva posto la questione della corretta interpretazione del Concilio: una “ermeneutica della riforma” in contrapposizione a una “ermeneutica della discontinuità e della rottura”. Si era quindi acceso, negli anni di Papa Ratzinger, un intenso dibattito, che si sperava avrebbe portato, prima o poi, a un chiarimento in materia, con benèfici effetti sulla vita della Chiesa. Ma, con il cambio di pontificato, sembrerebbe che di quel dibattito non sia rimasto piú nulla: a chi interessa oggi sapere in che modo vada interpretato il Concilio? Il Vaticano II sembrerebbe ormai consegnato alla storia, non perché non piú valido, ma semplicemente perché esso avrebbe svolto la sua funzione, che, nella visione dei novatores, doveva essere quella di “rompere” con il passato: compiuta tale missione, non interessa piú oggi che cosa il Concilio abbia detto; i suoi documenti hanno un valore puramente storico; oltre tutto, essendo il risultato di compromessi fra i diversi schieramenti, il loro valore è del tutto relativo; ciò che conta è lo “spirito del Concilio”, vale a dire lo spirito che ha suscitato il Concilio, che lo ha animato nel suo svolgimento (ma “ingabbiato” nella redazione finale dei documenti) e che oggi continua a suggerirci come rispondere alle sfide del mondo contemporaneo, a prescindere da quello che i Padri hanno potuto scrivere cinquant’anni fa. 

Appunto... cinquant’anni fa: abbiamo appena celebrato l’anniversario della conclusione del Vaticano II. Se ne è accorto qualcuno? Il grande evento che ha caratterizzato la giornata dell’8 dicembre 2015 è stata la proiezione di uno spettacolo ambientalista sulla facciata della basilica di San Pietro… Stiamo celebrando un giubileo straordinario, convocato appunto in occasione del cinquantenario del Concilio. Ma chi se ne ricorda? Facciamocene una ragione: il Concilio è stato ormai archiviato, mentre la Chiesa prosegue il suo cammino, guidata dal soffio dello Spirito. 

Eppure io sono convinto che la riflessione sul Concilio non sia affatto superata, ma anzi sia quanto mai urgente, perché solo una corretta soluzione alla “questione conciliare”, a mio parere, può ridare alla Chiesa la tranquillità che in questo momento non possiede. Per riprendere tale riflessione sono andato a rileggermi quanto scrivevo sette anni fa. Devo dire che, nonostante gli anni, mi sembra una riflessione tuttora valida, che però andrebbe integrata perché, nel frattempo, ci sono stati ulteriori contributi, che non possono essere ignorati. Tra i numerosi apporti, due in particolare hanno attirato la mia attenzione.

Mi riferisco, innanzi tutto, allo studio del Prof. Roberto De Mattei, Il Concilio Vaticano II. Una storia mai scritta, Lindau, Torino, 2010. Si tratta di un saggio storico preziosissimo per ricostruire il reale svolgimento del Concilio. Fra le tante incoerenze di un Concilio che aveva la pretesa di essere “pastorale”, una soprattutto mi ha colpito: il fatto che il Vaticano II, per motivi di opportunità politica, non abbia ritenuto necessario prendere posizione di fronte al comunismo, un fenomeno certamente non marginale in quel periodo storico. Ma la stessa costatazione si potrebbe fare a proposito della massoneria e delle altre grandi ideologie che hanno caratterizzato l’epoca moderna. Viene da chiedersi: ma di quale “mondo contemporaneo” ha parlato il Concilio, se ha ignorato completamente i sistemi di pensiero che in quel momento lo dominavano?

In secondo luogo, in questi anni sono stati portati a conoscenza del grande pubblico alcuni giudizi assai critici verso il Concilio, tratti dai diari inediti di Don Divo Barsotti. Sono stati citati dal Prof. Enrico Maria Redaelli e dal Padre Serafino Tognetti. Colpisce come un uomo di Dio, quale sicuramente era Don Barsotti, nel Concilio, che ci è sempre stato presentato come una specie di “primavera dello Spirito”, vedesse piuttosto una forma di hybris tutta umana in rivolta contro il Creatore. C’è, quanto meno, da riflettere.

Se ci limitassimo a queste considerazioni, dovremmo inevitabilmente concludere che forse sarebbe stato meglio non convocare il Concilio Vaticano II. Ma ci sono altre considerazioni da fare sull’opportunità, e forse sulla necessità, che prima o poi si facesse un concilio. Nel mio articolo del 2009 citavo la necessità di riprendere e portare a termine il lavoro iniziato nel Concilio Vaticano I. Il merito di questo “completamento” del Vaticano I va ascritto principalmente a Paolo VI, il quale ha trasformato quello che era nato come un concilio puramente pastorale in un concilio dottrinale, con un’attenzione particolare all’ecclesiologia. E direi che proprio su questo piano dottrinale possono essere individuati i frutti piú duraturi del Concilio, a prescindere dai risultati piú o meno felici delle sue riforme disciplinari o delle sue analisi pastorali.

Ma, oltre al Concilio Vaticano I, c’era un altro conto che era rimasto in sospeso nella Chiesa del Novecento, quello col modernismo. Per troppo tempo si era fatto finta che il problema fosse stato risolto con la pubblicazione del decreto Lamentabili e dell’enciclica Pascendi (1907) e con la successiva repressione di qualsiasi forma di dissenso. Ma il problema non era stato affatto risolto; era stato solo messo a tacere: il modernismo, di soppiatto, aveva continuato a diffondersi nella Chiesa, permeandone tutti i settori; diventava sempre piú improrogabile fare i conti con esso, non tanto sul piano disciplinare, quanto piuttosto su quello dottrinale. Mi pare che il Concilio Vaticano II sia servito proprio a questo, a fare un discernimento sul modernismo, per vedere che cosa ci fosse in esso di buono, che potesse in qualche modo essere ritenuto, e che cosa invece andava definitivamente respinto. Questo è ciò che ha fatto la Chiesa, cioè la Sposa di Cristo guidata dallo Spirito Santo, attraverso la riflessione dei suoi Pastori sotto la guida del Successore di Pietro, una riflessione sfociata nell’approvazione dei documenti conciliari, che esprimono, senza ombra di dubbio, il giudizio autorevole della Chiesa in campo dottrinale, disciplinare e pastorale.

Tutto ciò, naturalmente, può essere avvertito e accolto solo con uno sguardo di fede, che non ignora, ma va oltre le lotte fra gli opposti schieramenti, i giochi di potere, i maneggi delle lobby, i soprusi della presidenza, i compromessi al ribasso, che non possono certamente essere negati sul piano prettamente storico. Ed è su questo piano che alcuni hanno interpretato il Concilio, non come un discernimento, ma come uno sdoganamento del modernismo. L’ambiguità di alcuni testi conciliari (inevitabile quando si trattava di trovare un accordo tra posizioni contrapposte) permetteva di dare un’interpretazione “modernista” del Vaticano II; interpretazione contrastata dai Pontefici che si sono succeduti sulla cattedra di Pietro in questi cinquant’anni (Paolo VI, Giovanni Paolo II e Benedetto XVI), ma che ha continuato a diffondersi subdolamente nella Chiesa a tutti i livelli, fino a riemergere in maniera manifesta (e direi in qualche caso arrogante) in questi ultimi anni.

Va aggiunto che, forse, l’attuale oblio del Concilio può avere un effetto benefico: potrebbe segnare la fine di quella assolutizzazione che ne era stata fatta nel mezzo secolo trascorso. Sembrava quasi che il Concilio fosse diventato piú importante di Cristo e del suo Vangelo: come facevo notare sette anni fa, l’accettazione incondizionata del Vaticano II sembrava essere diventata la condizione suprema per poter essere considerati cattolici. È giusto storicizzare il Concilio: esso va inserito nel suo contesto storico; rappresenta soltanto una tappa del pellegrinaggio della Chiesa nel tempo; è stato preceduto da un lungo cammino che lo ha preparato e che in esso ha trovato il suo coronamento; a sua volta, ha avviato un processo di ulteriore approfondimento e sviluppo, nella continuità della tradizione della Chiesa. Andrebbe, in maniera solenne, riaffermato quale sia la corretta interpretazione dei testi conciliari: un discorso del Papa alla Curia Romana, per quanto autorevole, non riveste tale ufficialità (anziché bloccare la Chiesa per due anni su questioni che erano state già ampiamente discusse e risolte, si sarebbe potuto dedicare il Sinodo del 2015 appunto a questo scopo). Non trattandosi di un concilio dogmatico, non è escluso che si possano rivedere alcuni punti, o perché ambigui o perché superati dagli eventi. Non si possono però mettere in discussione le sue principali acquisizioni, non solo in campo dottrinale, ma anche disciplinare e pastorale. Se è vero che il Concilio non ha dato i risultati sperati, ci si dovrebbe chiedere, innanzi tutto, se questo incontestabile fallimento è da attribuirsi al Concilio stesso o non piuttosto a una sua eventuale mancata applicazione.

Per terminare, vorrei far notare che proprio l’esperienza che stiamo vivendo in questi anni dimostra la provvidenzialità del Vaticano II. Alcuni dei aspetti su cui si era soffermato il Concilio e che erano stati oggetto di critica da parte del mondo tradizionalista, stanno dimostrando quanto il Concilio sia stato lungimirante. La collegialità episcopale: abbiamo “tifato” tutti per i vescovi che nei recenti Sinodi si sono opposti con coraggio e tenacia alle trame della lobby tedesca per un “aggiornamento” della dottrina morale della Chiesa. La responsabilizzazione dei laici: abbiamo visto in Italia in questi mesi chi si è mosso per difendere la famiglia, nell’assenza pressoché totale delle gerarchie. L’ecumenismo: c’è voluto l’incontro con il Patriarca di Mosca per far sottoscrivere al Papa alcuni “principi non-negoziabili” che in questi ultimi anni erano stati completamente accantonati. E allora ringraziamo il Concilio per avere, con le sue “innovazioni”, messo la Chiesa nella condizione di fronteggiare le sfide della storia.