lunedì 28 settembre 2009

Chiesa e impresa #2

Ancora alcune interessanti riflessioni di David:


«Torno un’ultima volta sul discorso dell’impresa per alcune considerazioni... Ho seguito la vicenda delle nomine allo IOR e devo dire che mi sembra stia andando tutto bene. Non conosco personalmente Gotti Tedeschi, ma ho avuto modo di leggere alcuni suoi scritti, compreso il bel saggio Denaro e Paradiso.

Permettimi alcune considerazioni: la Chiesa ha da sempre un buon rapporto con le banche presenti sul territorio; alcune addirittura hanno un rapporto — mi si passi il termine — “organico” con la Chiesa, nel senso che sono dirette da cattolici da comunione settimanale, sono ispirate da principi cristiani fin negli statuti e spesso hanno sacerdoti, religiosi e laici cattolici negli organi direttivi. Non parlo solo di piccole casse rurali né di un colosso — ormai “secolarizzato” — come il San Paolo di Torino. Mi riferisco alle Casse di Risparmio, alle Banche Cooperative e a tutte quelle centinaia di realtà locali molto ben coordinate fra di loro, che costituiscono circa la metà del banking in Italia. A dir poco la metà... È certamente grazie a loro se da noi sono arrivati solo gli spifferi della immane tempesta finanziaria che ha fatto a pezzi i castelli di carte di banker e investment banker anglosassoni e nord-europei, essendo i “nostri” vaccinati da generazioni contro la tentazione del guadagno facile, staccato dal territorio e dal “fare”. Permettimi di spezzare una lancia a favore anche di Fazio, il penultimo governatore della Banca d’Italia e il primo cattolico praticante a guidare la nostra banca centrale: la sua “Italietta”, cosí sonnolente e poco aperta alle “innovazioni” della finanza anglosassone, ha retto molto bene all’urto... Meglio di altri, senza dubbio. Ora, lungi dal trionfalismo, continuo a sperare che le banche cattoliche si rendano protagoniste — con coraggio e lungimiranza — di questa lunga, difficile stagnazione che potrebbe durare anni e anni e che solo la stampa continua a chiamare “ripresa”. Sí, perché il problema — almeno secondo me — non sono le banche, ma le imprese. Quello che manca alla Chiesa non sono né i rapporti col mondo del credito né quelli con i lavoratori: su entrambi i fronti, la Catholica è messa meglio di chiunque altro al mondo. Mancano invece i rapporti — non solo istituzionali, intendiamoci — col mondo del “fare”: con le imprese industriali, dei servizi, del turismo, persino dell’agricoltura, un tempo la grande alleata dei papisti. Lasciando da parte medicina, comunicazione e formazione, perché si tratta di settori molto particolari, viene da dire che la Chiesa cattolica non coltiva rapporti saldi con le imprese.

Per esempio, sullimmigrazione ha un atteggiamento miope del tipo: Non vogliamo islamizzare l’Italia, ma gli immigrati vanno accolti, devono potersi integrare ecc. Parlo di miopia, perché vede il fenomeno (l’immigrazione), ma non ne coglie il dramma, se non quando lo può osservare da vicino e in modo eclatante (tragedie in mare, sfruttamento ecc.). Ma c’è un altro dramma, che si trova — passami il termine sessantottino — a monte di questo: sono le nazioni di origine dei flussi migratori, che vengono depredate di tecnici, ingegneri, agronomi, insegnanti e contabili per farne operai senza specializzazione, raccoglitori di pomodori, colf e badanti... La Chiesa potrebbe invece coordinarsi con le imprese dirette dai propri figli che delocalizzano per intervenire tutti insieme nei Paesi stranieri con credito, formazione, know-how, progetti... Se è vero che sotto molti aspetti le migrazioni sono una benedizione, per altri è una minaccia alle chance di emergere dei Paesi. La Chiesa lo potrebbe fare attraverso le diocesi, le conferenze episcopali, i movimenti cattolici o anche laici con capacità organizzative. La Comunità di Sant’Egidio o Comunione e Liberazione hanno già dimostrato di avere i mezzi per agire in modo concreto e positivo...

Il buon rapporto con le banche non deve essere un fine, ma uno strumento: le imprese hanno da imparare dalla Chiesa come si progetta nel lungo periodo, senza puntare al profitto immediato e facile. La crisi di molti distretti industriali in Italia, come quello pratese, sta proprio in questo: è venuto meno l’entusiasmo, che l’imprenditore agli inizi ha e che lo rende simile al missionario, al quale anche il solo fatto di essere ben accolto da non battezzati riempie il cuore di speranza. Sono passate le generazioni, i padri e i nonni, dopo aver avviato l’azienda fra sacrifici e trepidazione, ora hanno passato la mano ai figli, che sono cresciuti senza sofferenze e sono impreparati alle sfide; puntano perciò al guadagno veloce e sicuro, al reddito e alla bella vita. Un po’ come quelle Chiese dell’Africa e del Medio Oriente che — passate le persecuzioni — si dedicarono alle speculazioni filosofiche e teologiche e disprezzarono quanti erano restati fedeli alla fede semplice dei Padri e l’attività missionaria: arrivò l’Islam e di loro non restarono che poche enclave. Quando restò qualcosa... Dalla Chiesa l’imprenditore ha da imparare come — pur con tutte le umane debolezze — un’impresa possa durare nei secoli, restando sempre fedele a sé stessa. La Chiesa può fare molto, non solo come carità missionaria e assistenza ai bisognosi ma anche cercando di coinvolgere le imprese in progetti ispirati alla fede.

“Voi siete il sale della terra ... la luce del mondo ... se il sale perdesse il suo sapore, a cosa servirebbe?” Non era rivolto anche a chi produce, a chi commercia, a chi fornisce servizi alla società quanto detto dal Signore? Senza lo spirito cristiano e senza perseguire progetti ispirati dalla fede, a cosa serve l’impresa? Perché non pensiamo a quale sia la differenza fra una multinazionale che pianta e raccoglie frutta in un Paese africano e chi — oltre a dare ai lavoratori del loro secondo equità — investe anche per quel territorio, nella formazione, nello sviluppo e nella promozione umana? Osserviamo come si muovono gli investitori cinesi o quelli dei Paesi anglosassoni in Sud America o in Africa e domandiamoci se un giorno il Signore — che pure è misericordioso — ci chiederà conto anche di questo: “Ero prigioniero e voi non mi avete visitato”...».


Non mi intendo di banche, per cui mi fa molto piacere leggere quanto scrive David a tale proposito. Anche se non posso negare una certa apprensione per l’attuale situazione, che ritengo drammatica per tutti. Se il sistema crolla, penso che inevitabilmente tutti vi saranno coinvolti.

Mi sembra, ancora una volta, estremamente interessante il discorso sul rapporto fra Chiesa e impresa. Evidentemente, David se ne intende... Personalmente penso che il discorso sull’accoglienza e quello sulla delocalizzazione non siano alternativi, ma complementari. Anche perché noi abbiamo bisogno di questi immigrati. Ma è vero che queste masse di lavoratori, spesso qualificati, che lasciano la loro patria per andare in Europa e in America a fare i lavori piú umili, rappresentano un impoverimento notevole dei loro paesi in termini di risorse umane (anche se, allo stesso tempo, esse contribuiscono in maniera determinante allo sviluppo dei loro paesi con le loro rimesse finanziarie).

Di entrambi i problemi (migrazioni e delocalizzazione) si è occupata la recente enciclica Caritas in veritate. Nel mio post del 9 luglio scorso elencavo queste due tematiche fra i punti piú deboli dell’enciclica (in quanto meritevoli, secondo me, di un approfondimento ulteriore, che però — va riconosciuto — non poteva essere fatto nel contesto di un’enciclica). In particolare ciò che l’enciclica dice a proposito della “delocalizzazione” (in inglese, outsourcing) è stato fortemente criticato nei paesi beneficiari di tale dislocazione del lavoro, quasi che il Papa si sia fatto interprete degli interessi dell’“aristocrazia del lavoro bianco”, dimenticandosi degli interessi dei popoli del terzo mondo. L’enciclica, infatti, al n. 40, invita a tener conto non soltanto degli interessi degli azionisti (shareholders), ma anche di quelli degli stakeholders (“i lavoratori, i fornitori, i consumatori, l’ambiente naturale e la piú ampia società circostante”). Effettivamente, a una lettura superficiale, l’enciclica potrebbe dare l’impressione che sia preoccupata esclusivamente dei posti di lavoro che si perdono in Europa e in America, e poco interessata ai benefici che la delocalizzazione di fatto apporta ai paesi del terzo mondo. Ma, se si legge attentamente il testo, ci si accorge che la Chiesa non è affatto indifferente alle sorti dei popoli piú poveri.

Probabilmente una via d’uscita da questo “conflitto di interessi” potrebbe essere proprio quella di invitare gli imprenditori, piú che a delocalizzare (cosa che inevitabilmente danneggia i lavoratori del primo mondo), semplicemente a investire nel terzo mondo (con beneficio dell’impresa e delle popolazioni piú povere).

D’accordissimo con David sulle cause della crisi delle imprese italiane (ma non solo...). Queste non sono andate in crisi solo a causa della negativa congiuntura internazionale (certo, anche questo), ma soprattutto per ragioni “culturali”: il cambio di mentalità intervenuto nelle nuove generazioni (frutto, chiaramente, di una “rivoluzione culturale” non certo fortuita, ma deliberata). Quando lo scopo della vita è il guadagno facile e immediato, quando non si ha la consapevolezza che il successo di un’impresa è frutto di fatica e di sacrificio, è inevitabile che l’impresa vada presto in crisi.

Vorrei terminare con un esempio che ha suscitato la mia ammirazione in questi anni trascorsi nelle Filippine. L’uomo attualmente piú ricco in quel paese si chiama Henry Sy. È nato in Cina nel 1924. A causa della povertà, all’età di 12 anni, si trasferí a Manila con suo padre, aiutandolo in una botteguccia di alimentari (sari-sari store), che andò distrutta durante la seconda guerra mondiale. Aprí quindi un negozio di scarpe... Ora è proprietario di una catena di oltre trenta centri commerciali (SM Malls). E questo in un momento di crisi per l’economia internazionale. La sua filosofia: le crisi sono un’opportunità. Non solo lui è diventato l’uomo piú ricco delle Filippine, ma contemporaneamente ha dato lavoro a migliaia di persone, contribuendo allo sviluppo del paese che lo ha accolto. Tali risultati non sono certo il prodotto del caso, ma il frutto di costante impegno e sacrificio. Se Mr. Sy avesse cercato il guadagno immediato, forse a quest’ora starebbe ancora vendendo scarpe...